L’Italia ha fatto un ricco bottino di medaglie ai mondiali di nuoto paralimpico tenutisi in questi giorni a Città del Messico. La nazionale italiana ha portato a Città del Messico 11 ragazzi e ne è ritornata con 38 medaglie: 20 d’oro, 10 d’argento e 8 di bronzo; terzo posto nel medagliere, dietro alle sole corazzate cinesi e statunitensi. Sono atleti di alto livello: Monica Boggioni quest’anno prima dei Mondiali ha realizzato 5 record del mondo in poco più di un mese; Carlotta Gilli è la terza migliore atleta dei Mondiali messicani nel medagliere individuale dopo l’americana Lang e André Brasil. Federico Morlacchi, Vincenzo Boni, atleti di altissimo livello, così come Simone Barlaam che si è preparato per i mondiali dall’Australia, e ci scusi chi per motivi di spazio non citiamo, ma tutti sono esempi di dedizione e classe.
L’anno si chiude così, per gli sport paralimpici, ed è stato un anno ricco di soddisfazione, di impegni e fatica. Da Roberto Bruzzone che solo per un inconveniente inaspettato non ha potuto stabilire alla vigilia di Natale il record di marcia di 100 chilometri in 24 ore con una sola gamba; a Luca Righetti di Parma, ora campione italiano di mountain bike che punta a Tokyo 2020.
E tanti esempi potremmo citare di questo che altro non è che sport, e sinceramente ci irrita che venga inserito in una serie di manifestazioni qualificate dal prefisso para- che in maniera poco elegante indica sia l’idea di paralisi che di subordinazione (para-psicologia, para-farmacia), cosa che invece non ha senso. Già da anni ci battiamo perché le olimpiadi e gli sport delle persone con disabilità non abbiano uno svolgimento separato: è un po’ come se le gare per donne avessero un’olimpiade chiamata “womanlympics”, riservando il termine Olimpiade solo per i maschi: fortunatamente questo è impensabile e oltraggioso, e altrettanto ci aspettiamo diventi l’idea di tenere questo alto livello di agonismo, lo sport dei disabili, separato rispetto allo sport dei cosiddetti normodotati.
Purtroppo la malattia dello sport è la commercializzazione, che porta ad ammannire alle masse solo lo sport altamente sponsorizzato e relegare nel buio degli angoli ritagliati nei giornali e nelle TV lo sport femminile, quello de disabili e quello degli sport con pochi sponsor: judo, tennistavolo, ecc. e non ci vengano a raccontare che sono sport che non “tirano”, perché chi ha più di trent’anni ricorderà le notti insonni in cui tutti ma proprio tutti gli italiani erano diventati esperti di barca a vela e regate, avevano imparato tutto il gergo navale, solo perché qualcuno aveva deciso che certe gare dovevano essere pompate e diffuse e pubblicizzate. PS: Finita l’ondata pubblicitaria, tutti gli esperti velisti tornarono ad essere solo esperti di pallone.
Ma lo sport troppo ha in comune col commercio: quanto spesso vediamo slealtà tollerata, non sanzionata come dovrebbe negli sport di alto giro monetario. Quanto spesso vediamo gli stadi ridotti a valvole di sfogo del disagio. Lo sport è la metafora della vita: ora il Cio sembra aver ammesso tra gli sport olimpici i videogiochi, con un paradosso in cui i miraggi di sponsor e di audience tirano più della logica. Ma lo sport non può ridursi a commercio. Perché sport è esaltare l’eccellenza dell’uomo e della donna in una competizione al migliorarsi.
Ripartiamo dallo sport leale, da quello del sudore e non dei divi che sposano topmodel. Ripartiamo dallo sport che errando qualcuno chiama povero, ma che è ricco di bellezza, agonismo, ma tutto lo sport, sia quello dei disabili, delle donne o dei calciatori famosi. Perché non si possono accettare categorie, bollini, targhette di prima o seconda o terza classe tra chi fatica, lotta, perde, vince, ci illumina la vita, ci fa sentire che l’uomo si sa sempre rialzare e sempre superare.