La Grenfell Tower di Londra in fiamme. I giorni prossimi alla fine dell’anno sono giorni di memoria, di meditazione, anche di racimolo. Mi fanno tornare alla mente un gesto che, quand’ero bambino, vedevo accendersi nei campi del mio paese, illuminandolo di una eleganza unica. All’indomani della trebbiatura, della vendemmia, la gente usciva nei campi per racimolare il grano avanzato, i chicchi d’uva lasciata sui tralci. Non esagero, ma quella raccolta seconda, agli occhi di noi bambini, era più poetica della grande raccolta. Con gli avanzi della raccolta si faceva a gara per vedere chi era riuscito a fare meglio: più avanzi c’erano, più valore di mercato acquisivano le nostre quotazioni bambine. E’ un gesto liturgico il cui valore mi si riaffaccia negli ultimi giorni dell’anno: “Che voto diamo a quest’anno? Quale immagine scelgo per ricordarmelo?” Sono giorni di domande, di possibili risposte: “Poteva andare meglio. Peggio”. Come di chi, ormai prossimo a partire, voglia stringere in una foto un patrimonio di ricordi.
La mia immagine-simbolo è una torre che brucia: le fiamme l’attanagliano in una morsa infernale, i vetri scoppiano, tutt’intorno la terra è in allarme. Dentro la torre c’è una quantità di popolazione in fin di vita. Non c’è storia che valga più di un’altra nel mentre la morte s’avvicina: due di quelle storie, però, rimbalzano sulle voci rauche dei notiziari. Sono di Gloria e Marco, due ragazzi dell’Italia che emigra — costretta ad emigrare — giunti a Londra per dare una fisionomia al loro sogno professionale.
L’architettura è la loro passione, anche le fondamenta del loro avvenire. L’architettura inizia sempre in maniera semplice: “L’architettura — scriveva L.M. Van Der Rohe — comincia dove due pietre vengono sovrapposte accuratamente”. Anche le storie d’amore iniziano sempre così: con due vite che si sovrappongono, accuratamente. Gloria e Marco sono intrappolati nell’inferno di quella fiumana: la torre arde, le fiamme salgono, la morte s’avvicina a grandi cavalcate. A Pompei, sotto il Vesuvio, il calore calava verso il basso: a Londra il calore sale verso l’alto. In ambedue le direzioni, il calore inghiotte l’uomo che, in procinto di morire, cerca l’ultimo abbraccio: come attestano gli scheletri di gente ritrovata a Ercolano e Pompei, nei fondali del mare di Lampedusa. Abbracci che sono anche voci di saluto, da una torre inghiottita di fiamme: “Mamma, mi sono resa conto che sto morendo. Grazie per quello che avete fatto per me. Sto per andare in cielo. Vi aiuterò da lì”. E’ l’ultima telefonata di Gloria. Parole sintesi.
Chi più s’avvicina alla morte e riesce a fare ritorno dopo averla scansata, di lei dice che costringe a mettere nel giusto ordine le cose, a ritrovare le giuste proporzioni. A compiere, intrappolati nella burrasca di un tracollo, operazioni di sottrazione: “Chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione non quando non ha più nulla da aggiungere ma quando non gli resta più niente da togliere” (A. de Saint-Exupéry). E’ sottraendo la materia inutile, quella superflua, che s’annuncia il necessario. E’ scegliendo sostanze ignifughe che ci s’allena ad evitare quelle facilmente infiammabili. “Grazie” (per quello che avete fatto per me) è sostanza ignifuga: rende l’affetto resistente al fuoco, limita lo sviluppo della combustione. E’ scoprire d’essere condannati alla resa e sentirsi capaci di una resilienza più forte di qualsiasi altra forma di protezione: dire grazie, quando tutt’intono crolla, è il più alto riconoscimento di umanità. La forma più sublime di antisismica: roba da architetti, fiuto di ingegneri, estetica massima. In barba alle fiamme roventi.
In caso d’incendio, la maniera migliore per arginarlo è quello di togliergli di dosso l’ossigeno. Impossibilitati a fare questo, ciò che resta pare assai vicino al nulla: una parola scambiata. Una promessa fatta: “Sto per andare in cielo. Vi aiuterò da lì”. Un grazie, in condizioni disperate, è l’unica uscita di emergenza.