Quando si parla di famiglia mafiosa, di solito non si pensa alle donne. E invece proprio per la distorta, dissacrante idea di famiglia che c’è nella mafia, le donne contano, eccome. Conosciamo la loro omertosa vicinanza a padri, mariti, fratelli; vediamo la loro rabbia contro le forze dell’ordine e i rappresentanti dello Stato quando viene toccato un loro parente, un loro sodale; ascoltiamo, purtroppo sempre più spesso, in televisione, i loro sgrammaticati e feroci sfottò, i loro cenni di capo, l’ostentata indifferenza agli anni di carcere che soffocano la vita dei loro cari, e le loro vite. Evidentemente, al carcere ci sono abituate. Così, non stupisce che il capocosca arrestato ieri a Palermo fosse una donna, Maria Angela Di Trapani, figlia a sua volta di un capomafia e moglie di quel Salvino Madonia a sua volta figlio di capomafia. Una bestia di crudeltà inaudita, con assassini eccellenti e non, di bambini e di Libero Grassi, il coraggioso freddato per la sua testimonianza pubblica e per il rifiuto di pagare il pizzo. 



Bene, la soave Maria Angela, un nome che non è un destino, si sposa in galera il 23 maggio del ’92, mentre a Capaci, la zona controllata dal padre, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, con la loro scorta, saltavano in aria nel cratere. Un regalo di nozze per Salvino, chiamò qualcuno poche ore dopo per rivendicare l’attentato. 



Non si sa come in regime di 41 bis si riuscito a mettere al mondo un figlio, o a riconoscere il figlio messo al mondo da non si sa chi. Seme congelato, si racconta. Dimenticavo: a Salvino è pure imputata la strage di via D’Amelio, in cui perse la vita Paolo Borsellino. Dunque la Maria Angela è donna rotta a tutte le esperienze, pelle dura, che di morti ammazzati ne ha visti tanti, e non deve avere troppi scrupoli morali. 

Perfetta adesione alla rivendicata parità uomo-donna, Maria Angela incarna il reato e il peccato, che non fanno differenze di genere. Certo, ci stupisce, ci fa inorridire, che l’essenza della femminilità, cioè la cura, la dolcezza, la pietà, la tenerezza si possano piegare alla violenza, alla sopraffazione. Sappiamo che avrà tutte le giustificazioni per combattere quella che è a tutti gli effetti una guerra contro lo Stato, tramandata di padre in figlio, col sangue, senza interruzioni. Chi rompe la catena muore, Rita Atria ce lo ricorda. Quel che sgomenta è che l’autorità di Maria Angela cozza con una supposta costrizione parentale: lei ci crede davvero, lei dev’essere orgogliosa di marito e padre, lei avrà attrezzato il figlio a seguire le orme di casa; lei, come moglie e figli di Totò Riina che anziché il silenzio scelgono per onorare la memoria di cotanto padre di dar vita a una marca di caffè in cialde, Zu Totò. Rosso sangue o nero come il diavolo. Il diavolo c’entra, c’entra sempre, perché è a lui che si vende l’anima quando si sceglie il male. Capita agli uomini, alle donne. 



Anche la mafia si mette al passo coi tempi: del resto, l’antico precetto di non toccare donne e bambini è saltato da un pezzo; i codici d’onore erano memoria storica già con le rivelazioni di Buscetta, e anche allora si trattava di interpretazioni favolistiche. Criminali, da spazzar via senza alcuna concessione, neppure alle platee mediatiche. Donne di mafia, la miniserie tv che ci propina Rai2, non a caso, non è un bello spettacolo: offre pulpiti di cui nessuno sente il bisogno.