“Quella traduzione non è buona”. Qualcuno dopo queste parole dirà, anzi l’ha già detto, che il Papa si mette a cambiare anche il Padre Nostro. Ma ad ogni seminarista che frequenta i corsi di greco biblico è spiegato che quella traduzione è un retaggio ebraico, che l’espressione letterale non regge. A coloro che, poi, si apprestano a dare l’esame di esegesi dei vangeli sinottici è ripetuto che il senso di quel testo è un’implorazione a Dio affinché ci tenda la mano anche nel momento della tentazione. Infine, a coloro che si cimentano con la teologia patristica, si apre il mondo dei primi cristiani che leggono in quel versetto di Matteo il desiderio che il cuore non soffochi dentro l’esperienza della tentazione. 



Eppure è bastato che il Pontefice ricordasse l’errore di resa italiana di quel verbo a don Marco Pozza, nelle splendide riflessioni che gli ha condiviso, per scatenare un nuovo e intenso dibattito. Illusorio è pensare di chiuderlo. Prudente, invece, provare a formulare tre piccole riflessioni. 

La prima è proprio sul senso del brano evangelico: che cosa c’è di più vero del chiedere a Dio che il cuore non anneghi nel tentare, che — etimologicamente — significa proprio “esplorare con le mani, con il tatto”? Tutti noi esploriamo la realtà e, in quel tentativo nobile di conoscenza, l’unico pericolo è che il cuore si perda o si spenga. Ed è l’unica cosa che ha davvero senso chiedere a Dio per la nostra libertà: che ciò non accada, che la nostra umanità attraversi il deserto della confusione e dell’impulso rimanendo fedele a se stessa. 



Il fatto è che, comunque, nella preghiera italiana quell’intenzione manca, prevale una vecchia teologia in cui Dio ti mette alla prova per purificarti, come se non fosse Onnipotente nell’amore. Dio non ci mette alla prova, non gioca con il nostro dolore o con il nostro libero arbitrio. Crederlo significa nutrire un ultimo pessimismo sull’uomo, figlio di una concezione del peccato originale che riduce l’umano ad un peso inutile di cui Dio farebbe volentieri a meno. Dimenticandosi che Dio si è voluto proprio “fare uomo”, ha voluto assumere quello che noi vorremmo solo scartare. 



Infine l’osservazione più interessante: Francesco è così vivo, le parole di Francesco sono così vive, la sua fede è così viva, che basta che dica qualunque cosa per stupire, per meravigliare, per essere ascoltato davvero. Così, anche una banalità da seminaristi, sulla bocca di un uomo così diventa qualcosa da capire, qualcosa con cui confrontarsi. Cristo è così vivo in lui che ogni sorriso, battuta o commento arriva al cuore, arriva a smuovere l’anima di chi ascolta. Invece di stigmatizzare il circuito dei media che annotano tutto e ne rimangono come ipnotizzati, bisognerebbe tacere e chiedere al Padre Nostro una vita così tanto leale con Cristo da far sobbalzare anche noi, ad ogni nostro cenno, il cuore e lo sguardo di chi ci passa accanto. E attende soltanto che la propria umanità non soffochi di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla tentazione.

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