Siamo davanti al terrificante delitto di Luzzara. Una madre e moglie di 39 anni, Antonella, ha soffocato col cuscino la figlia di due anni, Kim. Poi uscita in auto con Lorenzo, di 5 anni, l’ha portato nelle golene del Po, ha ucciso col coltello lui e poi se l’è piantato nel ventre: non le è riuscito di morire però. L’hanno trovata con la lama in pancia e portata in ospedale. Dove ha confessato e rifiuta le cure, non si è lasciata operare: non vuole più vivere. Il marito Andrea era in officina a lavorare. È coraggioso, è stato azzurro di rugby, ma una sfida così umanamente è insostenibile.
Qualunque possa essere la causa — la fragilità mentale degenerata in follia bestiale, l’allucinazione demoniaca, la depressione o la schizofrenia o chissà che — essa è incommensurabilmente piccola rispetto allo spaventoso scempio delle vittime innocenti e all’assoluto desiderio di morte della madre.
Ciò che rifiuto a me stesso è la teorizzazione di quanto accaduto. L’inserimento di questi fatti nelle caselle della sociologia di pronto intervento. Rammento un antico discorso di Pio XII ai giornalisti dove li richiamava a raccontare delitti e incidenti ricordandosi che lì vicino c’era una presenza divina invisibile, che tutto guardava con occhi di misericordia. Nulla succede senza che abbia un senso, tutto è misteriosamente abbracciato da Chi è morto in croce (ed è risorto). Questa considerazione strappa anche l’uccisione di quei bambini all’abisso del nulla. Ma il male è lì, incombe, e il sapere di questa salvezza oltre i nostri occhi e oltre l’apparenza di quei corpicini lividi, non toglie in nulla il dramma, il fremito, il pianto di chiunque abbia un piccolo cuore, magari scadente, ma umano.
Che riflessione viene? È proprio vero che il male non è nostro. Non è neppure della madre sciagurata. Non è roba sua. Lo capiamo. Sarebbe comodo relegare il male a creature “diverse” da noi. Invece Antonella era, è come noi, in fondo in fondo. Non siamo fatti per questo, né noi ma neppure lei. E allora cerchiamo sempre un perché. Per fortuna cerchiamo il perché, il guaio è che lo troviamo, questo perché, in qualcosa che falsamente ci acquieti.
Accade che la tragedia, dove il male stravince, si prova sistematicamente a esorcizzarla riconducendola a categorie ideologiche. È il caso di quando a venire assassinate sono le mogli o le ex fidanzate o le ragazze respinte. Ed allora si infila il delitto nell’elenco dei femminicidi; si fa la conta, si trova che allora si aveva proprio ragione: le donne sono perseguitate, è giusta la battaglia politica e culturale contro il machismo eccetera. In questo caso di Suzzara invece la convenzione culturale di moda consiglia di dire che le famiglie di donna-uomo-figli fanno male, sono le famiglie a essere incubatrici di delitto.
Ecco, evitiamo queste uscite di sicurezza nell’ideologia. Apriamo piuttosto gli occhi alla pietà e ricaviamo da queste tragedie l’invito a riempire la solitudine di chi ci è vicino e magari non ne conosciamo il nome, o ci è accanto da una vita, e non siamo capaci di chiedere “come stai?”.