Una ragazza è in auto col padre. Di punto in bianco si slaccia la cintura, apre la portiera, si butta giù. Un Tir la travolge. Un’altra, a Roma, precipita dal settimo piano. Avevano entrambe diciassette anni. A Lavagna è un sedicenne che, sorpreso dai carabinieri con qualche grammo di hashish, si è lanciato dalla finestra di casa.
Chi sono, questi ragazzi risucchiati dal buco nero della disperazione quando dovrebbero divorare la vita? L’ho già scritto su queste pagine, lo ripeto: sono figli nostri.
Sono figli di un mondo che dipinge tutto di nero. Sono figli di una generazione — la mia, quella poco più giovane di me — che è cresciuta nel benessere, dalla vita ha avuto tutto ma forse non quel che più di tutto serve, una speranza, un senso. E che rovescia addosso ai suoi figli il rancore per un mondo che non ha soddisfatto le sue aspettative.
Tempo fa, ebbi una chiacchierata con una mia classe, diciottenni, a proposito dei figli. Un muro compatto: non vogliamo averne. Perché? “Prof, come si fa a mettere al mondo dei figli in un mondo così? La disoccupazione, il terrorismo, i migranti…”. Hai voglia tu a dir loro che la fame e la guerra ci sono sempre state, e che anzi in nessun tempo ce ne sono state poche come oggi.
A fare opinione non sono i libri degli “ottimisti razionali” — i Matt Ridley, gli Steve Pinker, i Johan Norberg — che documentano, dati alla mano, come il mondo non sia mai stato un luogo prospero e ricco di possibilità per così tanti come oggi. Certo, non è il paradiso, è pieno di problemi. Ma i problemi ci sono sempre stati. Il problema dei problemi, mi pare, sono gli “sfascisti”, quelli che cercano di bucare lo schermo lanciando l’allarme più tremendo — dalla sovrappopolazione ai cambiamenti climatici, dalla fine delle risorse alla disoccupazione globale, dallo scontro di civiltà ai politici ladri, e chi più ne ha più ne metta.
C’è da stupirsi che un ragazzo che cresce in un mondo dove tutti si lamentano di tutto, dove tutti accusano tutti, dove nessuno più riesce a godere di quello che ha — forse perché se manca un senso anche le cose più buone alla fine stancano, ma oggi chi riesce più a dire che il problema della vita è il suo senso? Minimo lo mettono alla berlina — pensi che la vita sia una fatica che non vale la pena fare?
Questi ragazzi sono figli nostri. Ne portiamo — ne porto — la responsabilità.