Un inedito firmato papa Francesco. Imponente per statura, tanto coraggio, la prefazione al libro di Daniel Pittet dal titolo La perdono, padre (Piemme). E’ una storia d’inferno, l’ennesima riproposizione di quell’inferno putrefatto che è la pedofilia. La narrazione non è la solita narrazione — al cui ascolto non siamo più capaci di rispondere con uno sdegno direttamente proporzionale — degli abusi perpetrati anche all’interno della Chiesa a danno dei minori. Può anche capitare che a qualcuno la denuncia non basti: conosco uomini, rattrappiti nella palude di una galera, ai quali la vendetta non ha scalfito minimamente il dolore causato da una perdita, da un’offesa, da una violenza. A Daniel premeva dare un nome-cognome agli abusi vissuti da bambino. E’ il segreto per vincere la paura, forse anche il dramma: darle un nome, chiamarla per nome, fare spazio nella nebbia alla sua fisionomia. “La perdono, padre” non è solo un titolo. Ciò che tiene desta la speranza è l’intervista finale che appare nel libro. Non un commento, bensì il nome e il cognome di un abuso: è l’intervista al frate responsabile di quell’abuso subito. 



Quarantaquattro anni dopo, Daniel sente l’esigenza di andare a trovare quel maestro-d’inferno per portargli il suo perdono. L’uomo di chiesa, per grazia, amministra il perdono alla gente: capita, un giorno, che la gente porti il perdono esattamente a chi, ferendo, ne ha perduto la fascinazione. La trasmissione.



Quaggiù non ci è dato di aprire, prematuramente, scappatoie verso l’aldilà: la storia va percorsa tutta, fino in fondo. Il Papa, scortato dalla teologia dei suoi predecessori, ne è convinto, fin quasi ad importunare avversi, gli avversari: la redenzione — il sogno che Dio coltiva per l’umanità — non distoglie l’uomo dagli impegni, dal sottomettersi alla giustizia della storia. L’imperfezione di questa non è scusante per menare vanto alcuno: Cristo, posto di fronte all’incapacità di Pilato, accettò. Per trasformarla. E’ l’inedito di una prefazione: “Ho visto ancora una volta i danni spaventosi causati dagli abusi sessuali e il lungo e doloroso cammino che attende le vittime”. Francesco, dunque, non aspetta che il lettore abbia finito di leggere il libro: mostra subito di stare dalla parte dell’autore. Porgendo, al lettore, una compagnia: s’addentrerà nell’inferno sapendo che il disgusto che proverà, la ripulsa che gli monterà sopra, l’ignavia per la quale tremerà sono le medesime che attanagliano il Papa: un “sacrificio diabolico”. Che non conosce saldi-di-stagione: “Si tratta di una mostruosità assoluta, di un orrendo peccato, radicalmente contrario a tutto ciò che Cristo insegna”. 



La prefazione non è la postfazione: la prefazione è il preludio di un racconto, una chiave di lettura. La postfazione è più un approfondimento, un commento a ciò che è stato letto, mal-digerito. Nella storia di Daniel non c’è traccia di materia da commentare: se c’è una cosa da fare, è di leggerla d’un fiato. E, se ne rimane, gustarsi l’imbarazzo di una Salvezza che, pur tradita, non tace lo stupore: “Il bambino ferito è oggi un uomo in piedi, fragile ma in piedi”.

Elie Wiesel, di fronte al male, è seccante: “Chi non sta con le vittime sta con i carnefici. Questo è il senso dell’olocausto: coinvolge non solo Abramo o suo figlio, anche il loro Dio” (Le porte della foresta). Leggo la prefazione del Papa, tengo sullo sfondo la cronaca: “per evitare lo scandalo” la curia di Foggia ha fatto togliere l’abito a don Gianni, senza denunciarne i misfatti. Gianni Trotta oggi è in carcere: da allenatore di una squadra di bambini, sarà processato per reati commessi nei confronti di un’altra decina di bambini dopo essere stato ridotto allo stato laicale. 

Prendere provvedimenti è come salvarsi-la-faccia: con la denuncia, però, si eviterebbe il furto dell’adolescenza ad altri bambini. In un libro, tre volti: la vittima, il carnefice, la Chiesa, nelle parole di papa Francesco. Quanto le strade si toccano, diventano incroci: il loro senso ci sfugge, oppure ci sfida. Cercarlo è da giganti. Il resto sono palliativi: Satana sa fin troppo bene come servirsene.

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