Le domande servono: “Perché è successo, perché a lui, perché adesso, perché in questo modo”. Sono necessarie se non altro per sopravvivere. Ma se da loro germoglia il complemento-di-colpa, che vantaggio ne trarrà l’uomo ai fini della propria esistenza? Gli uomini, quando si mettono a fare le analisi, sembra preferiscano il “perché”; le donne — che, da madri, meglio incarnano l’avventura — sposano il “come” dentro la disgrazia: “Abbiamo capito che, forse, la domanda da porsi in questa situazione è piuttosto: come?”. A parlare, durante il funerale, è la mamma del ragazzo di Lavagna suicidatosi per essere stato pizzicato dalla Finanza con un po’ di droga. Più un complemento-di-modo che di colpa. Sono strane le donne, più ancora le madri. A chi, tra loro, capita di sopravvivere alla morte del figlio, il futuro sembra in perpetuo bilico tra il ricordo e l’oblio. Alcune, poi, ne escono agguerrite. Come se, nell’attimo in cui la morte le ha frastornate col suo urlo, la vita le abbia tenute in vita con il suo urto: quasi che la morte, strappata una vittoria fisica, nulla possa contro la memoria di quella mancanza.
Sono donne alle quali la morte non ha tolto la fascinazione del ricordo, l’intercessione della memoria: perché nessuna morte possa essere stata vana. Donne capaci di perdere, perdersi, pur di ritrovare chi si è perduto. Pare proprio che essere donna sia essere capaci di giocare-in-perdita: “Grazie per aver ascoltato l’urlo di disperazione di una madre che non poteva accettare di vedere il figlio perdersi”. Non una guerra guardie-e-ladri, dunque: è stata la mamma ad allertare la Finanza. A cercare di tessere quella ragnatela di prossimità dentro una città che, altrove, ha salvato delle vite.
Adesso sappiamo, dunque, che quella madre i suoi panni-sporchi, quando ha visto che da sola non ce la faceva più, ha accettato di lavarli fuori casa. Conosco madri che mettono le valigie fuori casa ai propri figli, che bussano alla porta delle caserme, che all’onore dei padri rispondono col metterci-la-faccia delle madri: temo occorra essere madre per afferrare certe scelte. Per organizzare manovre che, al solo pensarle, arrecano fulmini al pensiero. Eppure lo fanno. Dove tutti dicono “E’ vietato sporgersi”, loro leggono “E’ necessario sporgersi”, esattamente lì: metterci la faccia, abitare sul limite, fare-disordine intravedendo l’ordine che ne verrà. Forse, chissà.
Attorno ad una bara, una madre ha celebrato l’elogio-dello-straordinario: “Straordinario è mettere giù il cellulare. Avere il coraggio di dire ad una ragazza ‘Sei bella’ senza nascondersi dietro frasi preconfezionate, chiedere aiuto, dire ciò che sapete” ha concluso la donna. Lei l’ha fatto: “Abbiamo organizzato un servizio e noi siamo andati lì”, ha commentato la Guardia di Finanza. Gli occhi, attorno alla bara, sono lucidi: nemmeno la canzone di Guccini — quasi una sorta di gregoriano moderno che aiuti a rielaborare lo strazio — rasserena gli sguardi attoniti.
Forse è tardi, forse si è puntuali, magari in anticipo: l’orologio della vita chiede d’esserci quando lei passa. Forse neanche le parole di un prete servono granché. In certi attimi è solo la vita a colpire, scolpire. Ascolto quella madre, tengo legate le parole al suono della voce, al balbettio dei tratti. Mi riappare Moshè lo Shammàsh (“l’inserviente”), il maestro di cui parla Elie Wiesel ne La notte: “Non mi parlava più di Dio o della Cabbalà, ma solamente di ciò che aveva visto”. Vedere non è sentire. Una madre sa sentire anche solo vedendo.
La soluzione, a guardare la vita da seduti, pare semplice: liberalizzare le droghe, i desideri, l’adolescenza. Liberalizzare anche l’anima: chi se ne importa. Per chi, invece, guarda la sofferenza-da-dentro, la sfida addita altrove: al mistero di un incontro che sveli alla vita un senso, che alla vergogna risponda con l’offerta di una possibile risurrezione, che smascheri come l’abbassare l’asticella crei consenso ma rischi di togliere l’appetito. Salvarsi, certi giorni, è rischiare di perdere-tutto. Sporgersi perchè una morte non sia stata vana.