“Facciamo gruppo: guardi, io a casa non parlo dei fatti miei, ma con gli amici mi sento bene, a loro confido tutto , sono loro la mia famiglia”. E’ uno dei tanti commenti raccolti fra gli amici e i compagni di scuola del ragazzo di Lavagna suicidatosi perché scoperto con dell’hascish. “Io con i miei mangio e dormo, poi arrivederci a domani” dice un altro. Che si crei un muro tra genitori e figli quando questi toccano l’età dell’adolescenza è un fatto naturale, anche positivo: è il momento in cui ci si dovrebbe staccare per sempre dal cordone ombelicale genitoriale. Il genitore che non capisce questo rischia di crescere personalità psicologicamente handicappate. Oggi però c’è qualcosa di cattivo, di subdolo, che si è infilato in questo normale corso della vita: la droga, ci dice il professor Claudio Risè, psicologo di fama, “di cui nessuno, ragazzi e genitori, sanno il reale contenuto nocivo. E quando non c’è conoscenza è difficile che si trovi un terreno comune di dialogo tra giovani e adulti”.
Professore, la mancanza di dialogo in famiglia non è una novità, è sempre esistita, una volta era addirittura normale che un padre non giocasse con i propri figli. Oggi però si assiste a una situazione che conduce a drammi impensabili, come mai secondo lei?
Il problema della mancanza di dialogo esiste da entrambi i lati, quello dei ragazzi e quello dei genitori. I ragazzi non si raccontano in casa, ma anche i genitori fanno una grande fatica a impegnarsi con loro, a scambiare esperienze, a trovare modi di stare con loro.
Perché secondo lei? Che ruolo gioca l’uso delle droghe cosiddette leggere? E’ un muro in più che divide?
L’uso della cannabis è una delle grandi zone in cui i ragazzi fanno fatica a raccontarsi, ma anche gli adulti. C’è una mancanza di informazione impressionante da parte di tutti, che rende impossibile qualunque forma di dialogo.
Eppure si parla di liberalizzazione anche nel nostro parlamento…
Sono decine di anni che ci sono prove scientifiche del danno che essa procura. Anche in America, dove si assiste in alcuni stati alla parziale liberalizzazione, la medicina continua a dirsi contraria richiamando l’assoluta pericolosità dell’uso di cannabis. Le prove scientifiche non mancano, ad esempio gli effetti di psicosi che essa provoca nei consumatori giovanissimi.
Pochi denunciano quanto lei sta dicendo, perché?
Stiamo parlando di qualcosa che viene sotterrato anche nelle famiglie. Almeno i genitori sapessero dire cosa comporta fumare queste droghe. In questo senso quello che ha detto la madre del ragazzo suicida al funerale è stata una lezione esemplare rivolta soprattutto ai genitori.
Non pensa che chiamare le forze dell’ordine sia stato un gesto estremo e destabilizzante?
Penso che in qualche caso è l’unico strumento che rimane ai genitori per arginare la cosa. E’ un atto estremo ma è estremo anche l’atto del ragazzo. Il giorno dopo l’episodio di Lavagna sul Times di Londra un Lord della Camera alta raccontava la morte della figlia per uso di cannabis artificiale, una droga che dà dipendenza immediata con fenomeni psichiatrici gravissimi.
Crede che oltre la droga anche la realtà virtuale dei social network costruisca muri sempre più alti tra figli e genitori?
Dipende da come si utilizza, Internet è un mezzo straordinario di informazione. Con la cannabis invece non dipende da come la utilizzi, da cosa vuoi farne, perché dipende da cosa lei vuole fare a te. Il problema di base rimane l’enorme disinformazione da parte di tutti, politici, giornalisti, famiglie. Un quadro sconcertante.