Il caso del proscioglimento per intervenuta prescrizione di un imputato di violenza sessuale su una bambina di sette anni, processo iniziato nel 1997 ad Alessandria ed approdato dopo circa vent’anni alla Corte d’Appello di Torino, per il quale il procuratore generale Francesco Saluzzo e la presidente della Corte d’appello Paola Dezani si sono scusati con la vittima, pone il problema più generale dell’istituto della prescrizione, per il quale una significativa percentuale di processi nel nostro Paese non giunge alla fine.



Sul caso si è espresso anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha richiamato l’urgenza di procedere all’esame del ddl che prevede una revisione organica della disciplina della prescrizione (che ne allunga i termini, prevedendo, ad esempio, un’interruzione della stessa dopo la condanna di primo grado e dopo quella d’appello).



Per comprendere il problema e gli eventuali correttivi, bisogna innanzitutto ricordare il senso di questo istituto.

Poiché il tempo che passa non lascia immutate le cose e le persone, lo Stato, dopo un certo periodo (che varia a seconda della gravità dei reati) non ha più interesse a perseguire gli eventuali colpevoli di condotte illecite.

Perché? Ci sono ragioni di carattere processuale e altre legate alla natura delle persone.

Quelle processuali sono di facile intuizione: ricostruire i fatti a distanza di tanti anni è molto complesso (si pensi solo alla labilità dei ricordi di eventuali testimoni, o all’irreperibilità di documenti decisivi) e si aumenta esponenzialmente il rischio di ricostruzioni fallaci e, di conseguenza, di errori giudiziari.



Dall’altro punto di vista, le persone nel tempo cambiano, cambiano le realtà sociali e i sentimenti collettivi: condanne per fatti molto risalenti nel tempo potrebbero non avere più senso o, addirittura, creare ulteriori ingiustizie.

Ovviamente, quando i reati sono molto gravi, i tempi di prescrizione sono molto lunghi (per restare sul caso da cui siamo partiti, le violenze sessuali, a seconda dell’età della vittima, hanno termini di prescrizione che possono superare i 20 anni), mentre i reati puniti con la pena dell’ergastolo, come l’omicidio, non si prescrivono mai.

Il Legislatore, negli ultimi anni, è intervenuto più volte per allungare i termini di prescrizione (l’ultima in tema di corruzione alzando le pene edittali o prevedendo il raddoppio dei termini per determinati reati), ma questo modo di intervenire lascia perplessi.

In una società che corre, dove al sentimento di giustizia della collettività sempre più spesso si risponde solo con il risalto dato alle indagini in corso, amplificate dai mezzi di comunicazione (a prescindere dalla celebrazione dei processi, sede naturale dell’accertamento delle responsabilità), allungare i tempi della prescrizione è anacronistico e va contro la ratio stessa dell’istituto, come accennato prima.

E’ più comodo intervenire allungando i termini, piuttosto che riformare gli istituti processuali e rendere più celeri i processi penali. 

Ci sono molti possibili correttivi in tal senso: una delle cause principali della prescrizione dei processi è stata individuata nella lunghezza delle indagini; i pm non hanno termini o obblighi, dopo aver chiuso le indagini, di esercitare l’azione penale (spesso i fascicoli giacciono per anni negli armadi delle Procure): imponiamo loro per legge che terminate le indagini abbiano un termine breve per chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio dell’indagato; oppure eliminiamo l’inutile udienza preliminare che, di fatto, è un quarto grado di giudizio e pesa sulla lunghezza del processo.

Il problema della prescrizione è reale, ma la strada intrapresa è una scorciatoia e va contro il vero bisogno di giustizia dei cittadini: ossia che vi sia un accertamento delle responsabilità e conseguente condanna o assoluzione in tempi brevi e non sentenze a distanza di dieci o vent’anni dai fatti.

Certo, il caso di Alessandria lascia interdetti, perché la gravità del reato commesso imponeva una condanna definitiva entro i termini prescrizionali, mentre il processo si è tradotto in una sorta di impunità del colpevole; mi sento però di poter affermare, sulla scorta dell’esperienza, che, per fortuna, rappresenta un’eccezione: reati così gravi, normalmente, proprio perché hanno tempi di prescrizione molto lunghi, giungono al termine prima di estinguersi per il mero passare degli anni.

Non strumentalizzerei, pertanto, questo caso limite (per quanto possa far gridare all’ingiustizia, urtando il comune sentire di tutti), per allungare a dismisura i termini di prescrizione dei reati; ma la comprensibile indignazione sia, viceversa, di stimolo per intervenire organicamente sul processo penale e rendere più celere l’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Questa è certezza del diritto.