Facebook. Bebe Vio, una creatura straordinaria, una meravigliosa atleta italiana disabile che ha incantato il mondo alle Paralimpiadi di Rio con il suo ineguagliabile insieme di grazia, determinazione e grandezza morale, bersagliata su Facebook da un gruppuscolo di feccia umana che ha fatto una pagina su di lei per invitare i lettori a stuprarla. Usando una terminologia vomitevole – da non ripetere, vi conviene fidarvi – che non un evolutissimo motore di ricerca ma anche qualsiasi ragazzino brufoloso in età da YouPorn avrebbe riconosciuto a colpo d’occhio come letteratura sado-pornografica.



Ebbene, quei milord di Facebook, i liberi docenti dell’Accademia Zuckerberg, quelli che fanno della conoscenza dei loro utenti un’arma di commercializzazione di massa, che dichiarano di conoscere tutto di noi, e di poter “profilare” chiunque, al millimetro, per gusti, opinioni e tendenze, ebbene: loro non dovrebbero rispondere di questa immondizia digitale, come ne risponderebbe qualunque vecchio, ordinario, brasatissimo direttore di giornale? Sì, che ne dovrebbero rispondere: visto che il loro mestiere è proprio filtrare quel che gli utenti di Facebook scrivono, per classificarlo, perché non riescono ad applicare ai contenuti algoritmi preventivi, capaci di bloccare parole inequivocabili e univoche, dal significato odioso?



Il legislatore occidentale, balbettante tra furori liberisti (“la Rete non si tocca!”) e intrallazzi con i nuovi faraoni del potere digital-finanziario, non riesce a emanare regole serie contro queste porcherie, ma ci sarebbe già – per esempio in Italia – la giurisprudenza cui attingere per inchiodare i farisei del silicio alle loro responsabilità di omesso controllo, come fece il giudice Oscar Magi nel 2008 condannando tre dirigenti itaiani di Google per violazione della legge sulla privacy a proposito del video in cui un ragazzo disabile veniva picchiato da alcuni compagni di classe: “Non esiste la sconfinata prateria di internet dove tutto è permesso e niente può essere vietato, pena la scomunica mondiale del popolo del web”, scrisse Magi nelle motivazioni di quella sentenza: “Esistono invece leggi che codificano comportamenti che creano degli obblighi che ove non rispettati conducono al riconoscimento di una penale responsabilità”.



Ma l’evidenza abbagliante di queste clamorose aree di vuoto legislativo nelle quali Facebook e qualche altro (pochi) scorrazzano lucrando ai danni delle nostre tasche di contribuenti e consumatori sfruttati è nulla a confronto con quel che si prepara per l’umanità – e non meravigli il termini altisonante – se nessuno provvederà a intralciare il passo al più visionario, e pericoloso, dei Tycoon della Rete: Mark Zuckerberg, appunto, il fondatore di Facebook (o meglio: il plagiatore di Facebook, visto che concordò 65 milioni di dollari di “risarcimento” ai due gemelli Cameron e Tyler Winklevoss per avergli rubato l’idea), il quale ha appena postato sul suo social-network un lungo, delirante testo nel quale, in sostanza, si candida come “presidente del mondo”.

La stiamo sparando grossa? Sentite qua: “Il nostro prossimo obiettivo sarà quello di sviluppare l’infrastruttura sociale per la nostra comunità – per sostenerci, per tenerci al sicuro, per informarci, per l’impegno civico e per l’inclusione”. E poi: “Il nostro obiettivo è rafforzare le comunità esistenti aiutando a unirci sia online sia offline così come a metterci in condizione di costituire comunità completamente nuove a prescindere dalla localizzazione fisica”. Ma è un parlare da imprenditore o da leader politico? Da santone di massa? E ancora, deliri di onnipotenza: “Nel futuro, ci saranno anche più casi in cui la nostra comunità dovrebbe essere in grado di identificare rischi relativi alla salute mentale, malattie o crimini”. Quindi la sua visione della democrazia: “(aiuteremo) le persone a impegnarsi attivamente tutti i giorni nelle cause che sono importanti per loro, e non solo ogni qualche anno nelle urne”.

È il primo manifesto politico di un signore che, senza nè particolari meriti scientifici nè tantomeno sociali (Facebook ha 12mila dipendenti, meno della metà dei forestali siciliani…) pretende chiaramente di governare il mondo. Se e quando la politica “sovranista” dei Trump, delle May, domani delle Le Pen, dovesse risvegliarsi dal torpore melassato della tardo democraiza obamiana, almeno una cosa buona dovrebbe, dovrà fare, tra tanti scempi che sicuramente farà: spezzare in dieci pezzi Facebook e i social, disarmare i nuovi Faraoni, liberare il sistema da questi webpredicatori da chiamata d’urgenza al 118.

Poi, si sa, le dittature ci sono sempre state: ma quelle analogiche hanno anche, altrettanto sempre, perso tutte le loro sfide. Quella digitale potrebbe vincere la sua. Contro di noi.