Il Festival di Sanremo è stato a lungo snobbato dagli intellettuali. Nel ’69 il Pci, con Dario Fo e Franca Rame, riteneva che fosse un prodotto della borghesia per narcotizzare i lavoratori. E Pasolini scrisse che deturpava la società civile. Oggi le cose sono cambiate, non sapremmo dire se per i miglioramenti del Festival o perché gli intellettuali hanno abbassato le pretese (o le penne). Da qualche anno la parte spettacolare ha preso il sopravvento su quella musicale. Considerando le risorse impiegate e la qualità dei conduttori, il Festival assicura il meglio dello showbiz. 



Molti leggono la sua storia come un rito che celebra il comune sentire della collettività. In fondo un modo per raccontare la nostra storia. Si veda a proposito un bel saggio di Serena Facci e Paolo Soddu. Da un certo punto di vista è vero che certi momenti della kermesse, se pure scandalizzando, hanno suggellato cambiamenti già maturati nella società. Così è stato nel 1964 per il disincanto femminile di “Non ho l’età” della Cinquetti, o lo scandalo della ragazza madre in “4 marzo 1943” di Dalla nel 1971, o “Luca era gay e adesso sta con lei” di Povia nel 2009, o per l’attacco ai preti di Celentano nel 2012 (ricordate? Dal palco dell’Ariston disse che Avvenire e Famiglia cristiana dovevano chiudere!). 



Ma il Festival ci rappresenta davvero? O rappresenta solo il sentimento superficiale del momento? Il Festival è più delle sue canzoni. Come tutti gli eventi, conferisce significati nuovi alle parti di cui si compone. E anche stavolta perciò dovremo attendere che si celebri. Intanto, però, possiamo dare un’occhiata ai testi delle canzoni. Prevale un certo intimismo. E’ in fondo anche il difetto del nostro cinema, sempre un po’ ripiegato su se stesso. Il punto non è l’assenza delle cosiddette canzoni “impegnate” (non se ne sente la mancanza), ma che, con qualche eccezione, tutto è un po’ piccolo, un po’ medio, un po’ “quasi”. Io e te. O anche io e io. Mancano le grandi storie. Invece, si può parlare d’amore anche in modo grande, quando come sfondo del rapporto a due c’è il mondo e non uno specchio. 



Inoltre si nota la tendenza alla complicazione, all’involuto. Il paragone col passato è impietoso e sarà evidente nella serata dedicata alle “cover”. Proviamo a riascoltare, ad esempio “Amara terra mia” o “Meraviglioso”, cantate da Modugno: semplici, ma intense. Tuttavia, scorrendo i testi ci imbattiamo anche in frasi importanti. “Il cielo non mi basta” canterà la Comello. E Meta: “la vita che avrai non sarà mai distante dall’amore che dai”. E Bernabei: “Se vuoi trovarmi, cercami nell’imprevisto”. Promettono di non essere banali. 

Vedremo nelle interpretazioni, nel modo in cui la melodia cucirà insieme le parole, nella forza delle sottolineature degli accompagnamenti, nel ritmo, nel modo in cui il contesto generale le incornicerà, se queste parole così impegnative saranno, o meno, lo squarcio attraverso cui si palesa, magari fugacemente, qualcosa che va al cuore, cioè al profondo. Il vero si riconosce. Risuona. Gioca a nascondersi, ma talvolta fa capolino. E’ così anche nella normalità delle giornate che sembrano più banali.