La sentenza della Corte d’Appello di Trento sulla genitorialità riconosciuta a una coppia di due uomini su due minori fatti nascere negli Stati Uniti, farà discutere a lungo.

Qui sembra opportuno ricordare la valenza culturale e politico-istituzionale di questo pronunciamento, che evidenzia una dinamica in cui “per via giudiziaria” si smantellano le decisioni prese con le leggi. 



Non sono bastati a mettere un punto fermo i lunghi mesi di appassionato dibattito in tema di coppie di fatto, unioni tra persone dello stesso sesso, stepchild adoption, diritti dei bambini o “diritto al bambino”, che hanno preceduto e seguito l’approvazione della legge sulle unioni civili. 

Una legge che regolava i legami tra persone dello stesso sesso tramite il nuovo (e controverso) istituto dell’unione civile, ma che non prevedeva in alcun modo la titolarità genitoriale di tali legami. Al punto che la stepchild adoption (l’attribuzione della genitorialità anche al partner senza legami biologici con il minore), pur presente nel progetto originario, era stata esplicitamente esclusa dal testo approvato. Scelta chiara: controversa, discussa, magari non condivisa da tutti, ma cristallizzata in un articolato di legge approvato dal Parlamento. 



Ma ecco che per via giudiziaria, colpo di mano dopo colpo di mano, con sapienti e raffinate “torsioni” giuridiche, entra dalla finestra quello che era stato portato fuori dalla porta. E viene riaffermato un presunto diritto di una coppia di adulti (di coppia omosessuale o eterosessuale, non farebbe alcuna differenza) di vedersi riconosciuta una genitorialità su un bambino che è stato generato da altri. 

Infatti la prima e più importante cosa che non si legge, nella sentenza della Corte di Trento, è quella black box, quella scatola nera della “nascita” del bambino, che viene giudicata totalmente irrilevante. Eppure ci deve pur essere stata una donna che ha portato dentro di sé per nove mesi quel bambino, che ha portato avanti la gravidanza, che l’ha sentito scalciare, che ha scambiato con lui messaggi chimici, che ha condiviso caldo e freddo, musiche e suoni, e che alla fine ha anche provveduto al parto. 



A quali condizioni questa donna ha consegnato il bambino? Quali tecniche di fecondazione eterologa sono state usate? Quali sono proibite in Italia? E perché lo status quo viene poi legittimato nel nostro Paese, senza preoccuparsi degli esseri umani che sono certamente stati sulla scena? La sentenza della Corte di Trento è totalmente — colpevolmente? — disinteressata del modo in cui il bambino è stato portato via a sua madre e consegnato a chi ne è diventato padre — uno pare con legame biologico, l’altro senza nemmeno quello. 

Infatti è la parola madre ad essere totalmente ignorata; la figura della madre viene cancellata, questa persona non esiste  — eppure questa donna è alla radice della nascita, senza di essa non ci sarebbe bambino. Invece la Corte, con linguaggio giuridicamente anche retorico, insiste sulla più neutra parola “genitorialità”. 

E poi, ovviamente, parla di “gestazione per altri“, formula neutrale, formalmente corretta, quasi elegante, e certamente più gentile della denuncia di gravidanze a pagamento e di fenomeni di “utero in affitto“, affermazione politicamente scorretta, forse anche più violenta, ma con buona probabilità — purtroppo — di essere molto più vicina alla realtà. 

Come si fa a riconoscere una genitorialità, che si sa realizzata all’estero con modalità che la legge italiana non riconosce e magari condanna, senza preoccuparsi del modo in cui questo bambino è stato messo al mondo ed è poi arrivato nelle mani dei suoi “genitori giuridici”? 

Qualche commentatore ha parlato di “assoluta indifferenza delle tecniche di procreazione cui si sia fatto ricorso all’estero” come di una vittoria di civiltà; così, anche se sapessimo che si tratta di “utero in affitto” (cosa che esiste certamente in troppe parti del mondo, ma che non sappiamo se sussista in questo caso, ed è giusto ricordarlo…), potremmo tranquillamente fregarcene? Perché quello che conta è l’obiettivo di portarsi a casa un bambino? Non sono un giurista, e certamente non sono in grado di smontare il sapiente castello costruito dai giudici della Corte di Trento; però so che il diritto degli adulti ad un figlio è una pretesa ingiusta, e non difende i soggetti più fragili: i bambini per primi, ma anche le donne che si trovano a sperimentare nel proprio corpo una maternità incompiuta, dovendo essere solo “ospitanti temporanee di bambini altrui”. Pazienti contenitori di vita, asserviti ai desideri di altri.