La morte di Fabiano in Svizzera è diventata ora vita politica effervescente dei radicali.it, da non confondere con il Partito radicale. Marco Cappato dopo aver consegnato l’amico alla clinica Dignitas di Zurigo, è rientrato a Milano per denunciarsi. Dice: “Rischio il carcere”. In realtà non sarà così, e ne è perfettamente consapevole. Il procuratore di Milano Francesco Greco ha osservato che “esaminerà con attenzione il caso, tenendo conto anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Cioè non si procede, lì dentro si è trovato spazio anche per esaltare il diritto all’aborto, figuriamoci:  è chiaro come il sole dove si va. La politica dei radicali è sempre stata quella di trasformare le loro risposte ai quesiti etici in diritti fondamentali, i quali trascendono le leggi in vigore e le annullano. Dunque che si fa? Si va dai giudici, i quali sistemano secondo il sentire del mainstream, della dominanza culturale, il codice del giusto e dell’ingiusto.



Povero Gentiloni il quale si affanna a spiegare: “Doveroso confronto parlamentare”. In questo clima di totale unanimismo sarà un confronto tra il leone dei mass media e della cultura a taglia unica e il piccolo gruppo di oppositori i quali saranno trattati, per ben che vada, come dei matti fuori del tempo, ma più probabilmente come torturatori di disgraziati.



In realtà la strategia dei radicali è spettacolarmente machiavellica. Non si accontentano della vittoria. Vogliono incardinare il loro successo — sulla facoltà di suicidarsi e di sostenere chi lo vuole — nel quadro splendente dei diritti umani inalienabili. Com’è noto e comprovato, chiunque si arroghi la facoltà di contestare un diritto umano si toglie per ciò stesso dal campo legittimo delle opinioni dissenzienti, e si trasforma nell’autore di un reato, e  comunque si colloca fuori dal campo democratico.

Sta accadendo in Francia per legge, dove è esplicito il divieto di far sapere la propria contrarietà alle unioni civili omosessuali. Facebook estromette chi esca da questi binari.



La tristezza più grande in questi giorni è vedere chi festeggia con gioia una morte, e si riduce il significato di una vita a essere stata stimolo al diritto a morire quando si vuole. Sarebbe questo lo scopo della vita? Basta questo per giustificare un’esistenza? Questo è oggi quel che si chiede sia riconosciuto anzitutto dalla magistratura, che così lo trasformi in principio intangibile, e discenda poi come obbligo di legiferazione per la politica.

Mi colpisce molto che due personaggi che si detestano e si accusano su tutto e per tutto si siano trovati perfettamente in linea su questa vicenda, proclamando il dovere dello Stato di aiutare la gente a morire. Sa(viano) & Sa(lvini), prototipi dell’uomo a taglia unica pure loro. 

Il dibattito in Italia è stato tutto sul diritto negato, sull’aiuto negato alla morte. Si è dibattuto su questo. Sono orgoglioso che il sussidiario abbia invece scelto di risvegliare la grande dimenticata: la domanda sul significato della sofferenza, sulla possibilità che essa — che va combattuta — non sia la negazione dell’umanità ma un dono misterioso, l’accadere di “Qualcuno di più grande”, come scriveva Emmanuel Mounier. 

Se la sofferenza non ha significato, non ce l’ha neppure la vita, che ne è intrisa. Tu (io!)  puoi non avere una risposta, puoi non trovarla nella persona e nell’avvenimento di Cristo. Ma l’orrore è aver fatto sparire la domanda come impossibile, assurda, nefasta. Per fortuna un piccolo gregge (resisterà?) accoglie questi poveri cristi sofferenti (che sono Cristo), con amore, amandoli così come sono, dicendo che anche questa è vita, e degna, sperando contro ogni speranza e contro ogni magistratura.