Quindi, alla fine, è così che funziona: gli esseri umani non sono delle comparse all’interno della grande sceneggiatura che i nostri principi e le nostre verità hanno disegnato come la migliore per gli uomini, ma sono figure misteriose, libere, irriducibili, che possono essere state educate per secoli ma che, in definitiva, riemergono sempre nella loro fragilità e nei loro desideri.
Al netto delle vicende politiche e culturali che ruotano attorno alla morte di Fabiano Antoniani, quello che rimane — al di là dell’immensa amarezza per una morte troppo simbolica per essere semplicemente reale — sono tre osservazioni che è giusto consegnare al dibattito pubblico e alla riflessione di ciascuno. La prima osservazione riguarda il fatto che il dolore, qualunque dolore, genera solitudine, non una solitudine fisica, ma anzitutto mentale; il dolore occupa la nostra mente e il nostro sguardo impedendoci di vedere qualunque cosa, qualunque bene, qualunque bellezza. Si impossessa di noi e ci isola dagli altri, privandoci di quel contatto con noi stessi e col mondo che davvero ci rende liberi. Capita quando ci si trova nelle secche di una relazione che non funziona più, piuttosto che dentro l’oceano di un tumore o di una morte, capita quando parte della nostra vita, e della sua dignità, ci viene portata via dal succedersi delle cose e dall’avvicendarsi delle “prove” cui l’esistenza è sottoposta.
Una cosa analoga la si fotografa in adolescenza, nel momento in cui gli eventi hanno una tale rilevanza emotiva da diventare dominanti, esclusivi e prevalenti. La mente prende in ostaggio la persona e la sofferenza generata da quella data circostanza guida le azioni che vengono compiute. Vogliamo morire, sparire, uccidere, farci del male. E niente riesce a convincerci del contrario. La solitudine del cuore è così tragica che ogni pensiero diventa reale e ogni desiderio irrefrenabile. Questo è un dato di fatto, il dato di fatto del nostro tempo, ossia il predominio netto della mente — dei pensieri — sulla vita, sulla realtà. Pensare di aprire una discussione pubblica su quanto è accaduto senza tenere conto di questo elemento significa eliminare un punto decisivo della realtà.
La seconda osservazione discende direttamente dalla prima: dinnanzi a tutto questo noi siamo impotenti. Il nostro bene o il nostro amore non risolvono l’anoressia di nostra figlia né le dipendenze di nostro figlio e non esiste un luogo in cui si possa davvero stare al sicuro dall’onda lunga della libertà: nessuna associazione, movimento o gruppo potrà mai risparmiare alla nostra testa e al nostro cuore di funzionare, di riconoscere autonomamente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non basta che questa distinzione sia scritta nero su bianco in una legge, che qualunque tribunale può sempre in qualche modo raggirare, e neppure che essa sia contenuta nelle Sacre Scritture o nel Catechismo: nulla può evitare all’uomo di essere uomo.
Non basta, quindi, aver dato tutto ai nostri figli o ai nostri amici per metterci al sicuro dalle loro scelte, non bastano i nostri sistemi scolastici, i nostri progetti educativi, le nostre proposte intellettualmente affascinanti o fortemente aggreganti. Noi siamo impotenti dinnanzi alla libertà dell’altro. Lo abbiamo detto due settimane fa per il suicidio di Lavagna e lo diciamo oggi dinnanzi a questa morte: tutto si ferma e si zittisce di fronte alla libertà.
La terza osservazione è dunque quella decisiva. Se tutte le cose che abbiamo detto sono vere, se il dolore dell’altro è accecante e noi siamo impotenti, l’unica strada che ci rimane per essere davvero amici e compagni è quella di trovare una nuova forma di contatto, una nuova forma di incontro, con il suo cuore. Per farlo occorre vincere le due forme di riduzione cui abbiamo assistito più volte in questi giorni, ossia la superiorità e l’inferiorità. La superiorità di chi spiega all’altro come dovrebbe morire e l’inferiorità di chi ha perfino paura, in nome del rispetto, di esprimere qualche perplessità dinnanzi alla scelta di farsi uccidere. Noi non siamo né superiori né inferiori a persone come Fabiano Antoniani, la nostra libertà è come la loro. Così come non siamo né inferiori né superiori alle persone che amiamo e che sono in difficoltà: loro sono come noi. Ecco perché dinnanzi all’imponenza della libertà dell’altro urge trovare una nuova forma di contatto con quella vita e con quell’esperienza che accetti di praticare una pausa rispetto a tutti gli schemi che già in cuor nostro abbiamo coltivato e costruito.
È necessaria una nuova apertura all’esistenza di chi ci sta accanto, di chi è diverso da noi, di chi sceglie altre strade rispetto a quelle “giuste”. Altrimenti rimarranno sul campo di battaglia solo le nostre sconfitte, le sconfitte di chi non ha saputo incontrare l’altro, in una supponenza o in un pudore che, di fatto, non ci hanno permesso di guardarlo negli occhi e di stargli di fronte fino in fondo. È questo quello che Cristo ha fatto con Adamo: Egli non ha permesso che il peccato diventasse l’ultima parola della storia, ma — dinnanzi alla libertà chiusa del primo uomo — ha ripreso l’iniziativa ed è tornato a cercarlo. Da uomo a uomo, affermando che l’ultima parola sulla vita non è il male, ma l’Amore di Dio gratuitamente donato, l’Incarnazione.
Ridurre la vita di Dj Fabo al suo ultimo gesto significa dunque non solo assistere all’ennesima sconfitta dell’umanità, ma ancor di più tradire il giudizio di Dio che ha consacrato Fabiano come persona e ha dato la Sua vita sulla croce per lui.
Si apre dunque un’epoca nuova, priva di ricette preconfezionate, un’epoca in cui la partita si gioca — in ogni campo — sulla nostra libertà e sulla nostra disponibilità a farci sfidare e incontrare dal Mistero di Dio che viene e che, venendo, costringe tutti noi a cambiare metodo, a non partire più da quello che già sappiamo, ma a ricominciare sempre da quello che già c’è: il Suo volto vivo nella storia, la Sua carne viva che ci parla ed entra in contatto con noi attraverso la nostra misera ed umile povertà.
Tutto, insomma, ricomincia dalla Sua Presenza. E questo, in fondo, è il senso e lo scopo di questa nostra Quaresima, di questo tempo in cui siamo chiamati a seguire Cristo fin dentro la sconfitta più umiliante, fin sulla Croce, fino all’alba di un’inattesa e gratuita mattina di Resurrezione.