C’è un mondo che non conosciamo al di là dei nostri discorsi, dei nostri ragionamenti e dei nostri dibattiti. Questo mondo è la realtà vera e profonda del nostro paese, una realtà che — quando sceglie di esprimersi in opinione pubblica o politica — lo fa sempre scardinando i paradigmi tradizionali di comprensione e di interpretazione della storia e dei fenomeni sociali. L’assassinio di Marcello Cimino, quarantacinquenne senzatetto palermitano bruciato vivo durante la notte per gelosia da un benzinaio del posto, apre uno squarcio su questo “pianeta ignoto” che rappresenta il sottobosco culturale della nostra nazione. 



In questo sottobosco c’è anzitutto una violenza inaudita, un senso di ingiustizia così forte e di rabbia così vicina al “punto di rottura” che basta un nonnulla per attivarla e sprigionarla. Questa rabbia nasce dalla profonda sensazione di avere perso, di essere fuori dalla storia e pertanto di non avere alcuna possibilità di bene e di felicità come prospettiva per la propria esistenza. La vita, in questo contesto, è quello che riesco ad arraffare, a “fregare” agli altri e allo stato. 



La povertà esaspera questo giudizio sulla realtà e i rapporti umani regrediscono a logiche animalesche fondate sulla prevaricazione e sull’astuzia. In un contesto di siffatta natura ogni parola, ogni sguardo e ogni azione dell’altro, è avvertita come una minaccia a “quel poco che ho” non riconoscendo nessuna istituzione — se non la forza — come interlocutore credibile per sostenere il proprio percorso di vita. 

Ma nel sottobosco culturale italiano c’è un altro elemento decisivo, l’ignoranza. L’ignoranza non riguarda tanto la cultura o la conoscenza delle persone quanto la loro capacità di rielaborare criticamente le informazioni che li raggiungono per interpretare in modo più maturo quello che accade nell’ambito del proprio spazio di vita. Una battuta o un pettegolezzo assumono per molta gente il grado di attendibilità tipico della verità e le risposte che sorgono davanti a queste cose diventano “reazioni” irrazionali, furori senza motivo, atti guidati da un profondo processo di disumanizzazione. La violenza e l’ignoranza impoveriscono la nostra umanità, la rimpiccioliscono e la rendono vulnerabile a qualunque emozione o provocazione. È questa la tristezza che attraversa gran parte del mondo dei clochard, un ambiente carico di sfiducia e di solitudine, un’atmosfera in cui si perde, giorno dopo giorno, la memoria di che cosa voglia dire “essere uomini”. 



A questo disagio non può rispondere la politica. Nemmeno se tutti avessero un reddito di cittadinanza e una casa di proprietà le cose cambierebbero, perché quello che ormai si è gravemente compromesso è il senso di realtà e di dignità che l’esistenza implica. Per questo la vera risposta al dramma del benzinaio che uccide per gelosia o del marito che riempie di botte la moglie perché ubriaco è l’educazione, un ambito in cui l’uomo ricomincia a ritrovare il proprio volto e la propria umanità. Madre Teresa non ha cambiato Calcutta diventandone la sindaca, ma aprendo il suo cuore e la sua casa al dolore e alla rabbia dei derelitti di quella città. 

È di questo che ha bisogno oggi il nostro tempo: non di un fortino armato e pronto all’assedio, ma della semplicità disarmante di un ospedale da campo dove curare tutti quelli che, come Marcello e gli altri, hanno solo la colpa di sentire dentro di sé tutto il dolore e la solitudine del nostro tempo. Di sentirsi, insomma, semplicemente “vinti”, semplicemente orfani.