Sull’omicidio Caccia arriva la svolta: «Ho deciso di collaborare a ottobre, 5 mesi fa, grazie agli strumenti che ho acquisito a scuola, dall’educatrice, strumenti che mi hanno portato a amare l’arte, la letteratura. Ho iniziato a fidarmi della giustizia, grazie a quegli educatori, agli psicologi e ai magistrati e al loro lavoro», racconta Domenico Agresta davanti ai procuratori di Torino. Ha deciso di diventare un pentito proprio dopo le esperienze maturate in carcere, per una volta formative: soprannominato per la sua stazza “Micu McDonald” è in carcere dal 2008 per aver ucciso il piastrellista 23enne Giuseppe Trapasso e condannato a 30 anni in via definitiva. «Mio zio aveva capito che mi stavo facendo un’altra mentalità rispetto a quella di mio padre e della malavita. Per me questo percorso era vita, non volevo tralasciarlo. Mio zio ha iniziato a minacciarmi e averlo sempre in carcere con me era pesante, finché ho chiesto aiuto e ce l’ho fatta», riporta lo speciale del Corriere della Sera oggi. Quanto ha ricostruito sul caso Bruno Caccia sarà fondamentale per provare a dare un tratto in più di verità all’inchiesta sulla morte del procuratore torinese nel 1983; rispondendo alle domande del pm della Dda di Milano Marcello Tatangelo, davanti alla Corte d’Assise, Agresta ha confermato che ad ammazzare Caccia furono Rocco Schirripa (imputato) e Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea, ritenuto vicino alla ‘ndrangheta e da poco indagato anche lui come esecutore dell’omicidio. Il giovane pentito ha raccontato come il cognato di Belfiore (Placido Barresi) gli raccontò in carcere il motivo per cui Caccia è stato freddato: «erano entrati nel suo ufficio senza appuntamento per convincerlo ad aggiustare processi e indagini, ma lui gli urlò addosso e gli sbatté la porta in faccia e loro lo uccisero proprio per la rabbia di essere stati cacciati così, lo uccisero perché era inavvicinabile e incorruttibile».
Il procuratore di Torino Bruno Caccia venne freddato sotto casa sua nel 1983 da esecutori materiali dei mandati boss della ’ndrangheta. Dopo una immediata falsa rivendicazione delle Brigate Rosse – erano pur sempre gli anni di piombo ed erano stati i primi sospettati per l’esecuzione del magistrato – l’imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del ‘ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta a Torino e anch’egli in galera. Belfiore ammise che era stata la ‘ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e il motivo principale fu che “con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”, come disse lo stesso Belfiore. Oggi la svolta, con le dichiarazioni e la decisione di collaborare con i magistrati da parte di Domenico Agresta, giovane nipote 28enne del boss della ‘ndrangheta torinese e omonimo Domenico Agresta. Il processo lunghissimo ha portato nel 22 dicembre 2015, la Direzione distrettuale antimafia (DDA) di Milano ad arrestare il presunto autore materiale dell’assassinio di Bruno Caccia: si tratta di Rocco Schirripa, panettiere torinese di 62 anni di origini calabresi.