Povera bimba, poveri genitori. Poveri giudici, forse, in un certo senso: come si fa a sbrogliare una matassa così?

Poveri genitori. Hanno una certa età, figli non ne sono arrivati, però oggi la scienza compie miracoli, promette a tutti la realizzazione dei propri desideri, perché non provarci? E così hanno incominciato la trafila — il calvario, scrive qualche sito, chissà se il giornalista è consapevole dell’origine di questa parola… — della fecondazione artificiale. Alla fine, il miracolo: Gabriella, con l’aiuto della scienza, concepisce una bambina. Che cosa c’è di male, oggi? Quante mamme sue coetanee o quasi lo fanno, oggi?



Ma loro sono, o perlomeno appaiono, davvero troppo vecchi. Sono tenuti d’occhio. Dai servizi sociali. Da premurosi vicini, anche. Che si accorgono che la piccola è stata lasciata sull’auto e si precipitano a denunciare l’accaduto. Il padre, Luigi, è messo sotto processo per abbandono di minore. Sette minuti è durato l'”abbandono”: la piccola dorme in auto, parcheggiata davanti alla villetta dove abitano, una stradina secondaria dove non passa nessuno, il tempo di scaldare il biberon. Dal processo, il padre esce assolto con formula piena.



Però intanto la macchina burocratica è scattata. La bimba è stata presa in consegna dai servizi sociali, allontanata dai genitori, affidata a un’altra famiglia. Partono i ricorsi, ma i tempi sono lunghi. Tra una sentenza e l’altra della Corte di Cassazione — la prima del 2013 che conferma l’allontanamento, la seconda del 2016 che la smentisce e restituisce la piccola ai genitori naturali, l’ultima dell’altro giorno — sono passati sette anni. La bambina intanto è cresciuta.

Povera bimba. Cresciuta prima in una struttura, poi tra le braccia di una mamma affidataria, poi di un’altra. Ora che facciamo, la strappiamo a questa mamma nuova per ridarla a quella naturale? No, dicono i giudici: ormai l’abbandono “è nei fatti”, è meglio per lei che non subisca un altro strappo, meglio che rimanga coi genitori affidatari, ora possono adottarla (poveri anche loro, naturalmente: prendersi in casa una figlia non propria, crescerla amorevolmente per anni, per poi vedersela sottrarre: come si fa?). E fra qualche anno, quando sarà più grandina, quando, come tutti i figli adottivi, vorrà riscoprire la sua storia, che cosa penserà di sé? Che è stata troppo amata — speriamo — tanto che un sacco di genitori l’hanno voluta? O — Dio non voglia — che hanno tutti sbagliato a volerla a tutti i costi? Compresi — forse — i vicini, che per troppo amore — mi auguro, non per un pregiudizio cattivo nei confronti dei genitori troppo vecchi… — si sono precipitati a denunciarne l’abbandono? (Io, devo confessare, se vedessi una bimba che dorme nell’auto dei vicini, prima di precipitarmi dai carabinieri starei lì un attimo a vedere che cosa succede, non so, magari citofonerei…).



E poveri giudici, costretti da un mondo sottosopra a una scelta davvero difficile. Che mi auguro abbiano davvero compiuto con nel cuore solo il desiderio del bene della piccola.

Scrivo di questa triste vicenda, non riesce a non affacciarmisi alla memoria il racconto biblico di Sara e di Abramo: anche loro erano vecchi, troppo vecchi, non avrebbero potuto avere figli. Invece, miracolosamente, arrivò Isacco. Per fortuna non era l’evoluto Duemila, altrimenti chissà se i servizi sociali gliel’avrebbero lasciato.

Poveri genitori, povera bimba. Poveri noi, che viviamo in un mondo stretto fra la dittatura del desiderio e solerti funzionari che provvedono al nostro bene…