Si annoiano da morire, li divora il tedio, e allora s’inventano giochi stupidi e pericolosi, tipo, non so, salire su un treno e devastarne una carrozza, gettare massi da un cavalcavia, prendere di mira un coetaneo e attaccarlo a testa in giù da un ponte, per vedere l’effetto che fa. E poi riprenderlo e postare il tutto su qualche social per avere i due minuti di celebrità che, l’ha detto Andy Warhol, saranno sempre più alla portata di tutti. Oppure riprendere il suddetto coetaneo mentre lo si porta in giro al guinzaglio come un cane. Fichissimo!
Poi, quando li identifica la polizia, li arresta e li porta in galera, cadono pure dalle nuvole. “Cosa abbiamo fatto di male?”. E non sono mica figli di povera gente analfabeta, vissuta ai margini della società in qualche favela italiana. No, scherziamo? E’ gente ricca: figli di benestanti, commercianti, architetti, avvocati per giunta. Hanno gli smartphone di ultima generazione, indossano le marche giuste, hanno la loro bella divisa da sedicenni: zaino, giaccone, scarpe, fantasmini… Perfettamente integrati, indistinguibili dal resto della fauna giovanile odierna.
Si annoiano. Forse, se invece di stare soltanto sui libri col cellulare a portata di mano, che ogni secondo sì e l’altro pure emana il ronzio del messaggino stupidino, frequentassero un po’ un bel campo di patate, imparassero cosa vuol dire vangare, rivoltare la terra, tirare su una cassetta di pomodori, o fare da manovale a un carpentiere, o farsi qualche ora di turno in una stazione di servizio alla pompa di benzina, forse si annoierebbero di meno, sentirebbero il dolore alla schiena che di sicuro non ti dà nemmeno il tempo di annoiarti. In più forse capirebbero che il tempo è prezioso ed utile e che la vita è bella, ma non è un gioco stupido. Forse, sperimentando il dolore sulla propria pelle non avrebbero il coraggio o la voglia di infliggerlo ad altri.
L’ultimo caso, gravissimo, che ha visto protagonisti dei bulletti di Vigevano, non può passare come una delle tante notizie che presto si dimenticano, perché chiama in causa tutti e in particolar modo noi genitori, che non possiamo rassegnarci allo spegnimento dei nostri figli e non possiamo rinunciare al nostro doveroso ruolo di sentinelle. Trattare i figli come polli da ingrasso abbandonati a razzolare nel pollaio significa rovinarli, deprimerli, privarli della loro dignità. Condannarli a sperimentare l’inutilità del vivere e, soprattutto, la mancanza di responsabilità, nel senso etimologico del termine. Questi non rispondono proprio a nessuno, solo a se stessi. L’unico dio è il loro egoismo, il loro capriccio, la loro “libertà”.
E’ strano, comunque, come abbiano la necessità (per divertirsi un po’, per “giocare”) di sottomettersi ad una disciplina. Voglio dire, progettare un atto criminale non è mica una cosa facile. Occorre un piano, una tattica; occorre studiare ogni particolare e, soprattutto, avere un gruppo, dentro il quale magari c’è un capo cui si deve totale, cieca obbedienza. Si dicono dunque liberi, ma in realtà si sottopongono a regole ferree. Loro, i figli senza più padri ingombranti, vivono sottomessi a una nuova e inquietante autorità.
C’è stato un tempo in cui l’autorità emanava direttamente da un Padre che era al di sopra di tutti. E bisognava venerarlo e seguirne i comandi. Chi lo faceva, chi obbediva, chi si uniformava autenticamente ai suoi precetti operava il bene, costruiva il bene. Era un grande uomo. Ecco, per esempio, quello che mille anni fa il santo re Stefano d’Ungheria scriveva nel suo testamento spirituale al figlio e successore al trono:
“Figlio mio carissimo, dolcezza del mio cuore, speranza della mia futura discendenza, ti scongiuro e ti comando di farti guidare in tutto e per tutto dall’amore, e di essere pieno di benevolenza (…). Se praticherai la carità, arriverai alla suprema beatitudine. Sii misericordioso verso tutti gli oppressi. Abbi sempre presente nel cuore il modello offerto dal Signore quando dice: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’. Sii paziente con tutti, non solo con i potenti ma anche con i deboli. Infine sii forte, perché non ti inorgoglisca la prosperità, né ti abbatta l’avversità. Sii anche umile, perché Dio ti esalti ora e in futuro. Sii moderato e non punire o condannare alcuno oltre misura. Sii mite e non voler mai mettere in opposizione con la giustizia. Sii onesto, perché non abbia mai a procurare volutamente disonore ad alcuno. Sii casto, perché tu abbia ad evitare, come spine di morte, le sollecitazioni malvagie. Tutte queste cose, qui sopra elencate, danno splendore alla corona regale, mentre, senza di esse, nessuno è in grado di regnare come si conviene quaggiù, né di giungere al regno eterno”.
Queste parole sono state scritte nel “buio” medioevo, il cui splendore, in realtà, non è nemmeno lontanamente paragonabile alla buia età in cui viviamo. Colpisce, in questo testamento, la concezione della vita come compito e il senso di responsabilità verso gli altri uomini. Solo in questo modo non c’è possibilità di annoiarsi. Tutto ciò veniva dal riconoscere, come dicevo, l’autorità suprema del Padre celeste, alla quale anche un re, potente e venerato, doveva sottomettersi.
Oggi quel Padre è stato detronizzato dal cuore di molti giovani. Il suo palazzo è stato abbattuto. Lo hanno distrutto dicendo che l’uomo sarebbe stato più libero. Ma è stato un inganno.
Lo svelava già, in Cittadella, Antoine de Saint-Exupéry a metà del secolo scorso: una volta abbattuto il palazzo, “gli uomini diventeranno bestiame sulla piazza pubblica, e, per non annoiarsi tanto, inventeranno dei giochi stupidi che saranno ancora retti da regole, ma da regole meschine. Perché il palazzo può favorire i poemi. Ma qual poema si può scrivere sulla futilità dei dadi lanciati in aria? Forse essi vivranno ancora a lungo dell’ombra dei muri, di cui sentiranno la nostalgia destata dai poemi, ma poi l’ombra stessa svanirà e non li comprenderanno più”.
Una profezia, o, se preferite, un’incredibile istantanea di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi.