A pochi giorni dalla festa di San Giuseppe e dalla sua visita a Milano, centro dell’iniziativa economica del paese, ieri papa Francesco è tornato sul tema del lavoro. In sintonia con una lunga tradizione, dalla Rerum Novarum alla Laborem Exercens fino alla sua stessa Laudato si’, Bergoglio ha ripetuto che “il lavoro ci dà dignità e i responsabili dei popoli, i governanti hanno l’obbligo di fare di tutto perché ogni uomo e ogni donna possano lavorare e così avere la fronte alta, guardare in faccia gli altri, con dignità”.



Ieri molti sono stati colpiti anche dal suo contestuale auspicio per una positiva soluzione della vertenza Sky. Infatti, la multinazionale dei media vuole chiudere la sede romana, trasferendo centinaia di lavoratori a Milano. E spesso i trasferimenti sono licenziamenti mascherati, perché costringono le famiglie a sacrifici impossibili. Si tratta di questioni complesse, perché è vero che le imprese sono obbligate sempre più frequentemente a riorganizzazioni dolorose. Non spetta alla Chiesa fornire soluzioni concrete su temi sociali delicati come questi (spetterebbe, in una concezione non clericale, a laici credenti che si assumono le loro responsabilità. Ma ce ne sono ancora in giro?). 



Spetta invece al Magistero richiamare ad un corretto metodo per affrontare i problemi. A esempio: la logica del profitto ad ogni costo non può essere l’unico criterio. Perciò il papa ieri ha aggiunto: “Chi per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese lavorative e toglie lavoro agli uomini, compie peccato gravissimo”. Un richiamo duro agli imprenditori. 

Ma, leggendo per intero il magistero, anche quello di Francesco, è chiaro che accanto alla dignità del lavoro c’è anche la dignità nel lavoro e questo riguarda tutti, datori di lavoro e lavoratori. Vengono in mente le straordinarie parole di Péguy: “un tempo gli operai non erano servi… la gamba di una sedia doveva essere ben fatta… non per il salario, per il padrone, per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé…”. Oggi nel mondo del lavoro di operai del genere si sono perse le tracce e, quel che forse è peggio, nel mondo della cultura non c’è più nessun Péguy a ricordarcelo. L’incuria del proprio lavoro è sulle cronache dei giornali, il che vuol dire nella scrivania accanto alla nostra (se non nella nostra). 



Le parole del papa risuonano dunque ancor più necessarie in un degrado generalizzato, fatto di furbizia, di sciatteria, di svoglia, di approssimazione, di spicciola corruzione. Ai tempi del liceo la chiamavamo alienazione e ne davamo la colpa al Capitale. Oggi sappiamo che la radice è più profonda. Purtroppo, l’incuria è contagiosa. Per fortuna, lo è anche la cura. Come la bellezza.

Leggi anche

IL PAPA E LA GUERRA/ Mentre la carne sanguina, il realismo della pace viene solo dal VangeloPAPA FRANCESCO/ Lo sguardo di Bergoglio su ambiente, economia e guerreUCRAINA, RUSSIA, EUROPA/ "Dal corpo di pace alla dittatura Ue, cosa mi ha detto papa Francesco"