Il volto è grazioso, la sua voce è una pungitura, lo sguardo un incrocio di spaesamenti: malinconia, riscatto, vagabondaggi. Staziona in fronte alle sbarre concitate di una fredda galera: là dentro, stretta e costretta tra ferro e cemento, scorre lentissima la vita del padre. Uscirà quando apparirà una data-non-data: il 31 dicembre 9999. Tradotto: fine-pena-mai, condannato all’ergastolo ostativo.
Il campanello, davanti a quell’ammasso cementizio, sta ancora suonando come in quella dannata mattina. Lei aveva diciotto mesi, quel suono è per-sempre: “E’ una brusca scampanellata nel cuore della notte — scrive A. Solzenicyn nel suo Arcipelago Gulag — o un colpo brutale alla porta. L’arresto è uno sconvolgimento spirituale inimmaginabile al quale non tutti possono assuefarsi e che spesso fa scivolare nella follia”. A diciotto mesi si è troppo piccoli per capire: diciotto mesi, per altri, è l’età non-scelta per accettare d’essere scaraventati allo sbaraglio. In una perquisizione non c’è più nulla di sacro: la vita è stata trapiantata altrove.
Una vita a lasciarsi interrogare: “Lei è affezionata a suo padre. Pensa mai alle vittime che ha lasciato per strada?”. Ad accettare di rispondere: “Certo, signora. Come potrei non farlo?” per poi spostare la tenda e chiedere che si guardi la realtà tutt’intera: “Lei, invece, ha mai pensato che di tutte le vittime causate da mio padre, io sono stata la prima? Sto ancora scontando la pena di crescere senza-padre”.
Orfana, con un padre vivente. Per lei, ragazza di un Sud complicato, la paternità è uno snervante Giro d’Italia degli affetti. Le città, nella sua geografia, non sono piazze, monumenti: le città sono nomi abbinati a carceri. Le stagioni sono un elenco di carcerazioni che accecano, stordiscono. Venticinque anni su ventisei a vagabondare per lo stivale per salvare l’affetto. Gli anni del 41-bis a gustarsi il padre dietro il vetro-blindato: niente tocco, tatto, contatto. “E’ severamente vietato toccare” il filo dell’alta tensione, la statua al museo: il padre dietro il vetro, una lapide.
“Mia madre è caduta in depressione: la tengo a casa. Col mio stipendio tengo in piedi la famiglia”. A diciotto-mesi la vita è in salita, controvento, senz’olio: “Per chi rimane, dopo l’arresto, è la lunga coda di una vita sconvolta” (A. Solzenicyn). A restare è la speranza dell’amore: quello che, furtivo e improvviso, fa sbocciare l’umano. Le capita: s’innamora, sogna, s’imbarazza. Fino al giorno in cui c’è un addio non calcolato: “Suo padre è in carcere. Lasciala”. Lasciata: ancora in piedi, ancora in viaggio. Che le colpe dei padri cadano sui figli è roba da Antico Testamento: per taluni il Nuovo latita.
La festa del papà, in galera, è un ossimoro d’inganno: il campo semantico della festa con la semantica della paternità? “Ti ascolteremo nel 9999”. Perché dire-padre è uno strazio, l’allargarsi della ferita, l’infezione della mancanza. Gli arresti si distinguono per il grado di sorpresa che arrecano: anche la donna si riconosce dal grado di sorpresa ch’è capace di generare: “Ho vissuto anni di rabbia, d’inquietudine, di pena: mi è mancato tanto il padre in tutti questi anni. Oggi sono orgogliosa di lui: è mio padre”.
Nessun figlio può concedersi il lusso di scegliersi il padre: il cognome cucito è un marchio d’appartenenza. Nessun padre, alla nascita del figlio, immagina chi diventerà, di cosa sarà capace quel pugno di carne indifesa. A diciotto mesi ciò che sembra normale è sentire dire da un padre: “Preferirei soffrire io piuttosto di veder soffrire mia figlia”. Ciò che pare assurdo è l’inversione di marcia della frase: “Preferirei soffrire io al posto di veder soffrire mio padre, mia madre”. Detta da una figlia cresciuta troppo in fretta per vestire le parole di velluto, l’eco è da vertigini. Esistono padri che, per amore, sanno aspettare i tempi di maturazione dei figli. Ciò che non si calcola è il fattore-sorpresa: l’esistenza di figlie che, per amore, sanno aspettare i tempi di maturazione dei destini dei loro padri. Essere padre, in certi luoghi, è accettare d’essere figli-dei-propri-figli. Paternità-murate che le figlie non molleranno mai.