Secondo una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 14 marzo 2017 (Achbita e Bougnaoui), il datore di lavoro che vieta ai propri dipendenti a contatto con il pubblico di indossare il velo non viola il diritto dell’Unione. 

L’Unione europea non ha una competenza diretta in materia di diritti umani né sulla libertà di religione in particolare. Il diritto Ue vieta tuttavia in via generale talune forme di discriminazione (in base alla nazionalità, al sesso e alla razza) nonché, dal 2000, le discriminazioni sul luogo di lavoro fondate sulle condizioni di salute, l’età, l’orientamento sessuale e la religione (direttiva 2000/78/CE, da noi recepita con il Decreto legislativo 216/2003). Ed è la prima volta che la Corte di Lussemburgo è stata chiamata a pronunciarsi sul divieto di non discriminazione sulla base della religione nei luoghi di lavoro.



Le pronunce sono state rese “a titolo pregiudiziale”, ossia su richiesta di due giudici nazionali (l’uno belga e l’altro francese), relativamente alla legittimità di due licenziamenti per violazione del divieto imposto dal datore di lavoro di indossare il velo islamico. 

Nel caso francese, la Corte ha stabilito che la richiesta di un cliente che il lavoratore non indossi il velo non costituisce un requisito occupazionale essenziale e determinante, che possa giustificare di riservare un impiego a coloro che non indossano il velo. Nel caso belga, una donna di fede musulmana, receptionist presso un’impresa privata, si era rifiutata di conformarsi al divieto, formalizzato nel regolamento interno dell’azienda, di indossare, sul luogo di lavoro, segni che manifestassero ideologie di natura politica, filosofica, ovvero religiosa; divieto che si applicava indistintamente a tutti i dipendenti. 



Secondo la Corte, “la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa, deve essere considerata legittima. Infatti, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta [dei diritti fondamentali dell’UE], … in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo“. La Corte ha tuttavia rimesso al giudice nazionale la determinazione se il divieto, formalmente neutro, comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, perché in questo caso potrebbe costituire una discriminazione “indiretta”. 



La Corte ha sancito che la neutralità anche di credenze religiose con cui un’impresa privata impronta le relazioni con i propri clienti è un valore tutelato dall’Unione europea. Il principio dovrà essere applicato dai giudizi nazionali che hanno chiesto alla Corte di pronunciarsi, ma è vincolante in generale per tutti i giudici dei 28 (sic!) Stati membri, ivi compresi naturalmente quelli italiani. 

Ma ciò che la Corte concede (con una mano), toglie (con l’altra), rimettendo alla discrezionalità dei giudici nazionali di valutare, caso per caso, una serie di elementi ben oltre l’effettiva neutralità del divieto rispetto ai diversi credi religiosi. Il giudice dovrebbe valutare non solo se la policy sia applicata in maniera sistematica e indifferenziata rispetto alle varie religioni, ma anche se la stessa sia limitata ai lavoratori che interagiscono con i clienti nonché la possibilità di riassegnare il lavoratore ad una diversa mansione non implicante un contatto visivo con i clienti, senza un eccessivo aggravio per il datore di lavoro.

Ma c’è di più. Come molti ricorderanno, la Corte europea dei diritti dell’uomo — essa sì con il compito specifico di proteggere le libertà fondamentali, ivi compresa la libertà religiosa in tutte le sue manifestazioni — ha invece affermato che non solo l’esposizione di crocifissi nelle scuole (Lautsi c. Italia del 2011) non viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma anche che il fatto di indossarli può costituire un aspetto del diritto del lavoratore di manifestare la sua libertà di religione (Eweida c. Regno Unito del 2013).

Vi è poi l’aspetto di rilevanza costituzionale di come conciliare con il principio fondamentale di uguaglianza sostanziale il diverso trattamento cui potranno essere sottoposti i dipendenti pubblici rispetto ai dipendenti di datori di lavoro privato, con riferimento al divieto di discriminazione sulla base della religione sul luogo di lavoro. 

Come districarsi? In tempo di tensioni e discriminazioni religiose (non solo oltre oceano), l’incertezza tanto per i datori di lavoro che per i lavoratori nuoce alla tutela dei diritti ancor più di un riconoscimento mancato.