Così ci siamo arrivati. Una coppia omosessuale si vede riconosciuta la paternità di due gemelli ottenuti da una madre surrogata in Canada. Ovviamente si possono fare tutte le considerazioni possibili: salutare la decisione della Corte d’Appello di Trento come una vittoria di civiltà, oppure segnalarla come l’ennesimo segnale di originalità di una magistratura pronta a controfirmare qualsiasi gesto di autonomia del singolo rispetto a vincoli di qualsiasi tipo. 



Il dibattito è aperto e, come sempre accade in questi casi, approderà a due fronti ciascuno dei quali sosterrà i propri valori. In tal senso sembra veramente che il problema sia solo di principi e, poiché ciascuno ha i suoi, resti totalmente irrisolvibile, approdando così allo stagno del relativismo nel quale galleggia da tempo la cultura contemporanea.



Eppure, se non ci si vuole girare dall’altra parte e ritrarsi da qualsiasi considerazione, si può — e probabilmente si deve — pretendere la chiarezza, evitando di cadere nel dibattito tra principi primi (che pure esiste). Occorre ed è doveroso essere coscienti di ciò che è accaduto, dando ai fatti il loro peso reale ed evitando, per quanto possibile, di accedere a considerazioni di ordine più generale.

Il piano della verità costituisce una dimensione fondamentale e inaggirabile di ogni fatto e, proprio per questo, va coerentemente ricercato e praticato. Ma il piano della verità in questo caso ci dice che la Corte d’Appello, riconoscendo la genitorialità di entrambi i soggetti legati tra loro da un rapporto affettivo e di mutuo sostegno, ha di fatto ritenuto che la figura della madre biologica possa essere surrogata da due soggetti maschili. Ha ritenuto cioè che i due gemelli, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, impareranno ad amare i loro due papà, come sarebbe accaduto qualora fossero stati invece un papà e una mamma, caratterizzati e definiti da due generi diversi: maschile il primo e femminile la seconda.



Ciò implica una considerazione chiara, una considerazione che la Corte d’Appello ha implicitamente sottoscritto e della quale dobbiamo prendere atto. Dobbiamo infatti ritenere, assieme al collegio dei magistrati, che il collegamento della funzione della maternità con il genere femminile sia meramente culturale e quindi, nella realtà, questa sia svincolata da qualsiasi requisito fisiologico. 

Proprio per questo la funzione materna può essere svolta tanto da una donna quanto da un uomo. Detto in termini ancora più espliciti, dobbiamo ritenere ed essere sinceramente convinti — almeno questo e non altro dice la Corte d’Appello di Trento — che la maternità sia una condizione dello spirito e non un dato della natura, e quindi sia proprio in virtù di questo che possa essere pienamente adempiuta anche da una persona di sesso maschile, senza nessun problema e soprattutto, senza nessuna conseguenza per il bambino.

Quest’ultimo, per la prima volta nella storia del genere umano, dimostrerà, con la propria stessa felicità, quanto la funzione materna svolta da un soggetto maschile, si riveli del tutto adeguata e non presenti nessuna difficoltà salvo che nello sconcerto degli altri, ancora asserviti al luogo comune che ritiene che la maternità sia un universo presieduto da presupposti di ordine biologico e non da principi culturali.

Una tale affermazione, si converrà, per quanto possa suonare consona allo spirito dei tempi e rispecchi in pieno un sentimento diffuso, non ha in realtà nulla di certo e lascia in piedi tutti gli interrogativi possibili. Ci si può (e forse ci si deve) chiedere se abbiamo veramente le prove che la dimensione della maternità, l’essere madre, sia realmente una mera funzione culturale, svincolata da qualsiasi presupposto biologico, al punto da poter essere svolta anche da una persona di genere maschile.

Abbiamo il dovere di chiederci se ciò sia realmente vero. E se la maternità fosse, al contrario, veramente collegata alla cornice biologica femminile? E se il dato naturale per il quale nasciamo tutti da una donna segnasse un vincolo incontrovertibile e non oltrepassabile? E se la possibilità degli uteri in affitto, come tante altre novità provenienti dalla scienza, non significasse affatto, minimamente, la possibilità di fare a meno dell’universo femminile, ma le funzioni di quest’ultimo fossero veramente indispensabili ed insostituibili?

Se questo dubbio rivelasse un problema reale, cosa stiamo facendo? Cosa stiamo autorizzando? Chi lo spiegherà tra qualche anno a questi due gemelli che la loro mamma non è mai esistita, anzi, è stata limitata alla semplice cornice della vita prenatale? Chi ci ha dato il diritto di privare questi due bambini della madre e, per un’opportunità offerta dalle nuove tecnologie, costringerli ad una vita con due padri? Siamo veramente certi che quest’assenza della madre, questa madre pagata e allontanata per essere un semplice contenitore, non apra loro le porte di un vuoto infinito, proprio a causa della sua assenza?

Spero sinceramente di sbagliarmi, ma il principio di precauzione dovrebbe qui essere decisamente sottoscritto. La prudenza è un dovere: fermiamoci.