In Italia ci sono alcuni ex manicomi che praticano ancora l’elettroshock. L’ultimo dato ufficiale risale al 2013 e fu messo per iscritto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta allora da Ignazio Marino. Secondo questo rapporto, citato da Il Tempo, 91 strutture ospedaliere italiane hanno fatto ricorso a questa pratica, conosciuta anche come Tec (Terapia Elettroconvulsionante). Nel triennio 2008-2010 furono 1.400 le persone sottoposte all’elettroshock, ma questa cura invasiva è applicata anche in molte strutture private.
Come funziona la Tec? I pazienti si sottopongono a questa terapia per cicli, con ricovero e un’anestesia di cinque minuti. Ogni ciclo prevede 10-15 sedute con lo stesso procedimento: viene applicato il gel sopra le tempie per non provocare le bruciature, poi con gli elettrodi si provoca una scossa elettrica a basso voltaggio che attraversa il cervello per un tempo che varia da due a otto secondi. Questa è la pratica, dunque, con cui vengono curati coloro che soffrono di depressione, manie, schizofrenie e psicosi.
C’è, però, chi è convinto che l’elettroshock non procuri i benefici sperati: «Negli anni Sessanta la praticai con convinzione, da assistente universitario, poi vidi cosa accadeva ai malati e capì che non solo è un trattamento umiliante ma che i risultati sono solo legati alla perdita temporanea della memoria, salvo poi avere peggiori ricadute», ha dichiarato a L’Espresso lo psichiatra Ernesto Venturini, del dipartimento di salute mentale di Imola.
Ci sono anche “elettroshockisti convinti” che hanno chiesto al Ministero della Salute di incrementare le risorse per la diffusione della Tec: si sono riuniti nell’Aitec, associazione italiana per la terapia elettroconvulsionante. Ad esempio, Roger Pycha sostiene che l’elettroshock sia una «terapia salvavita nei casi gravi di catatonia maligna e guaritrice nel 50% dei casi di depressione maggiore».