L’uccisione a colpi di spranga di un ragazzo di vent’anni ad Alatri non può farci girare pagina e parlare d’altro. Se la filosofia, scienza dell’essere, ci educa a riconoscere l’esistenza del male radicale e assoluto, la sociologia, scienza dell’agire, ci porta ad analizzare le possibilità di ridurne la portata, di prevenirlo e, per quanto possibile, di evitarlo, riducendone al minimo le manifestazioni.
Ed è ancora la sociologia a spiegarci come il delirio omicida, l’istinto assassino, per quanto improvvisi, abbiano comunque un terreno di coltura che ha consentito loro di crescere negli anni; come i rovi mai tagliati, i terreni boschivi mai curati. Ed è così che le colline franano, la convivenza civile si fa fragile, le piante parassite crescono, la piccola delinquenza, la piccola criminalità si riproduce e si rafforza. Una criminalità che, se è certamente minore per tipo di reati, non per questo – come adesso tutti possono constatare – meno pericolosa, meno letale.
Alatri è una splendida cittadina della Ciociaria, con una chiesa romanica la cui bellezza è da togliere il fiato, delle strade ben curate ed un borgo che merita ogni lode. Tuttavia, ad Alatri non meno che in molti altre cittadine d’Italia, la società locale che presiede al controllo sociale ed al rispetto delle norme è venuta meno da diversi decenni. Accanto a questa si sono sviluppate isole private che non è in grado di controllare. Prendono così corpo le piccole arroganze locali, le spavalderie e le aggressioni, le minacce e le violenze di singoli nuclei delinquenziali che, benché circoscritti, si rivelano inattaccabili da una giustizia che ha tempi e criteri di desolante inefficacia.
Nascono così i “califfati personali”, le delinquenze minori, dove il piccolo spaccio si coniuga alle sopraffazioni locali, alle attività illegali per le quali non sembra esistere detenzione possibile (uno degli aggressori del ragazzo ucciso era stato arrestato la mattina stessa del giorno dell’omicidio per spaccio, ma subito prontamente rilasciato). Così le mille prevaricazioni si concludono con poco o nulla. Troppo lievi per meritare una pena reale, ma già consistenti per fare del male, produrre violenza, uccidere. La giustizia si vede quel tanto che basta per ricorrere agli avvocati, ma non per dissuadere i colpevoli, né tanto meno per spaventarli. Da qui il senso di profonda sfiducia nel quale ogni omertà trova le proprie ragioni.
La situazione sotto quest’aspetto non è dissimile da quanto avviene nelle non lontane borgate romane, là dove i califfati personali prendono le dimensioni cospicue dei clan della criminalità organizzata. Ma con una differenza radicale: mentre nella capitale, dove l’attività criminale è strutturata in modo organizzato, le risse e le violenze private sono ritenute inutili e controproducenti dai criminali stessi, in quanto bloccherebbero attività ben più redditizie, nell’immensa periferia del crimine non vigono gli stessi principi. Qui prevale la reazione compulsiva, la prevaricazione locale, il primato dell’affermazione personale privata. Il malvivente di provincia non ha grandi progetti, gli basta imporsi sul vicinato, assicurarsi la leadership di un dominio locale, contro il quale invano si accumulano inutilmente le denunce sul tavolo della pretura, mentre invece le sue ritorsioni sono immediate e la sua violenza, come purtroppo si è visto, inaudita.
Le regole del gioco che vigono per la società nel suo complesso si rivelano pertanto inefficaci quando si passa alla delinquenza locale, alla banalità delle prepotenze personali. Il problema riguarda quindi l’inefficacia del nostro sistema di sanzioni e di pene, che si rivela assolutamente ininfluente quando si entra nel mondo della convivenza ordinaria. Ed è a causa di questa sostanziale inefficacia che si possono sviluppare profili devianti, dove tutti sono al corrente delle attività illecite, ma nessuno trova ragionevole il denunciarle in quanto il sistema giudiziario impedisce di perseguirle in modo efficace, cioè attraverso sanzioni reali e detenzioni altrettanto concrete, comminate in tempi brevi. Occorre attendere il reato più grave, il “guaio più grosso” per poter operare finalmente quel blocco necessario che, se attuato per tempo, avrebbe consentito ad un ragazzo di vent’anni di vivere anziché essere ucciso a bastonate.
In realtà il dovere di intervenire in modo efficace e diretto su ogni angheria, su ogni sopraffazione è la scelta indispensabile affinché la devianza, come i rovi d’estate, non cresca e non uccida. Ciò vuol dire, semplicemente, tolleranza zero. Verso la droga innanzitutto, vera epidemia del terzo millennio che trasforma gli esseri umani in animali, ma anche verso la cultura leggera e irresponsabile che la tollera: quella che non appena arrestato uno spacciatore lo rimette prontamente in libertà in quanto il suo avvocato riesce a convincere il magistrato che si trattava di droga per uso personale. Una tale irresponsabilità giuridica rimette in libertà delle vere e proprie macchine assassine, come il tragico fatto di Alatri ha dimostrato.
Ovviamente non è sufficiente: non basta reprimere, è necessario edificare. Occorre allora che la cultura dell’individualismo venga sostituita con quella della relazione. Saper stare con gli altri nel consesso civile di un’aula scolastica, di una piazza, di un locale pubblico non è un optional ma un prerequisito minimo, una competenza inderogabile. Ogni atto di violenza, ogni bullismo, deve essere immediatamente sanzionato, ogni infrazione alla convivenza civile deve incappare nel massimo della pena. Non esiste una criminalità minore, ogni sopraffazione e ogni gesto di violenza annulla la società civile. “Un solo crimine è sufficiente a rompere il contratto sociale, una sola soperchieria, un solo disonore basta a perdere l’onore, a disonorare un popolo intero” scriveva Péguy.
L’aggressione mortale ad un ragazzo di vent’anni è l’ennesimo segnale d’allarme di un delirio dell’io che richiama ciascuno alle proprie responsabilità: genitori, educatori, insegnanti da un lato, ma anche forze dell’ordine, magistratura e parlamento dall’altro. Nessuno può tollerare un secondo di più quest’abisso di barbarie, questa notte della ragione nella quale ogni Paese, ogni Italia possibile, ogni sua provincia, hanno di fatto già perso tutto.