Sinceramente, non mi fa paura dj Fabo in sé, ma dj Fabo in me. Lui voleva morire non perché immobilizzato, ma perché, da immobilizzato, non trovava più alcun senso al suo vivere. Lo ha scritto lui stesso: “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione non trovando più il senso della mia vita ora”. Questa percezione, appunto, non si spiega a livello fisico ma a livello psicologico: la stessa mancanza di senso può attanagliare una donna in chemioterapia, un ragazzo che ha perso il lavoro, un marito tradito, la figlia di un malato di Alzheimer, e si potrebbe scendere fino alle depressioni e ad altri sconforti. Di sicuro non sarà un discorso sulla sacralità della vita (né una legge sul fine vita) a risollevare una persona che ne avverte l’insensatezza. La voglia di vivere del mio alunno Checco, che a diciott’anni è finito sulla sedia a rotelle, mi dà uno schiaffo molto più forte. Perché a me, per molto meno di una paralisi, viene voglia di mollare tutto. Ed è più comprensibile il desiderio di dj Fabo, “bloccato a letto immerso in una notte senza fine”, di tutte le chiacchiere pro e contro l’eutanasia. Mettiamoci nei suoi panni, innanzitutto, come ha chiesto il dj: “Prova tu a stare in un letto, cieco, immobile, legato mani e piedi, per sempre. Non resisteresti una settimana”.
Quando nei Promessi sposi il cardinale Federigo Borromeo parla con don Abbondio, quell’uomo straordinario si mette nei panni dell’uomo qualunque, che non ce l’ha fatta, che ha avuto paura a celebrare un matrimonio perché è stato minacciato: tu cosa avresti fatto? Sentite il cardinale: “Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento!”. Io non so cosa farei in determinate situazioni, ma la mia debolezza non può diventare ciò che è giusto fare. Certo, “il coraggio, uno non se lo può dare”: e chiediamolo, allora.
Ecco cosa mi fa paura: se io un giorno chiedessi il suicidio assistito, intorno a me chi troverei? Persone che assecondano il mio cedimento? specchi dei miei pensieri? nessuno più coraggioso di me? nessun Federigo? Tutti che prendono la mia debolezza e la elevano a misura, a legge? che chiamano coraggio la mia debolezza? Questo mi spaventa: una vita su misura della mia debolezza, in cui, ogni volta che dico “non ce la faccio”, tutti mi rispondono “se è questo che senti, allora lascia stare”. Possibile che nessuno sappia aiutarmi ad attraversare la notte? Ma allora a chi vogliono bene, adesso che tutto fila più o meno liscio? A me che sono un dj? A me che sono un insegnante? Qualcuno vuole bene proprio a me, a questo rottame che non è più un dj, che non sarà più un insegnante, che è quel che è, senza il sorriso e la forza e l’entusiasmo di un tempo, o senza averli mai avuti? Che terrore se avessi intorno gente che di me ama solo quello che oggi c’è e domani può non esserci! Questo sì, sarebbe un lungo suicidio assistito, e non ci sarebbe bisogno di andare in Svizzera.
Mi auguro persone che mi correggano, che mi aiutino a ricominciare. Vorrei amici che — quando dico, come Fabo, che sono “incapace di sopportare il dolore sia fisico che mentale”, o quando mi perdo nei meandri dei miei pensieri, e come il Porfirio leopardiano concludo che la vita è dolore inutile, e poi vedo che, la morte, tante persone “la desiderano spessissime volte, e alcune se la procacciano”, e che “la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato o di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita” — mi ricordino che “in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo”.
Sì, se smetto di volermi bene, dovete dirmelo: e chiamare debolezza la mia debolezza, e non coraggio; e paura la mia paura, e non diritto; e cedimento il mio cedimento, e non libertà. Dovete ricordarmi che non sono soltanto un dj o un insegnante; dovete farmi scoprire, se dovesse mancare tutto e mi ritrovassi faccia a faccia con me stesso, che cos’è questa cosa dimenticata sotto la schiuma di tutto quel che adesso faccio e che mi piace, questa cosa che si chiama me stesso, che si chiama io: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita”. Non slegatemi dall’albero della nave quando canteranno le sirene e vi ordinerò di liberarmi. Non ditemi “muori”, ditemi “viviamo”. E se io smetterò di vedere, guardate voi quel che non so più vedere; se concluderò che “a me la vita è male”, ributtatemi la luna addosso. Smettetela di concordare con me che la notte è buia; mostratemi piuttosto “come si può ch’io regga a tanta notte” (Ungaretti).
Ditemi quel che ha scritto nell’ultimo post Valeria, la fidanzata di Fabo: “Vorrei che questa notte non finisse mai…”. Appunto: il desiderio di non morire se ne infischia perfino delle nostre idee. “Gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole”, ha scritto Ugo Foscolo nei Sepolcri: perfino mentre si stanno chiudendo per l’ultima volta, gli occhi si protendono verso la vita; perfino mentre andiamo in Svizzera perché finalmente finisca la notte, vorremmo che la notte non finisse. È un destino che ci è irrimediabilmente cucito addosso: vogliamo vivere. Vivere, anche nella notte, anche ciechi, anche tetraplegici, anche con la Sla, anche ad Auschwitz, anche senza moto e senza musica, anche senza moglie e senza lavoro, anche senza fascino e senza capire. “Per vivere liberi, fino alla fine”.