Un pensionato di 84 anni, Guerrando Magnolfi, ha sparato alla moglie Gina di 82 e alla figlia Sabrina, tetraplegica, 44 anni. Alle prime luci dell’alba, con il suo normale vecchio fucile da caccia, nella normale casa di abitazione, primo piano sopra un negozio di alimentari, in una periferia né bene né male, via Brozzi, Firenze, l’Arno a due passi, e a due passi la Casa del popolo dove l’anziano si intratteneva spesso. Prima di farla finita, aveva telefonato a una nipote: “Stiamo tutti male, chiama un’ambulanza”. Ha lasciato una lettera di addio in cui destina gli averi a un’associazione di artisti che la figlia frequentava, e nella avrebbe anche lasciato intendere il motivo del gesto: il peso dell’età e della fatica, il senso di inadeguatezza, la paura di non farcela più ad assistere alla figlia e insieme la paura che non ci fossero altre mani piene di cura come le sue a seguire la figlia. Da qui una disperazione sempre più cupa, cresciuta nel tempo. Non si sarebbe dunque trattato di un raptus di follia, ma di un progetto lucidamente concepito e realizzato.
Questo è quanto si è appreso ieri dalle fonti di informazione. Qualcuna di esse ha addirittura ipotizzato, non si sa su quali basi, che i tre poveretti fossero tutti consenzienti. Ma se Sabrina era d’accordo… il caso ci riporterebbe al tema del suicidio assistito che domina nel tritacarne mediatico di questi giorni, dopo la drammatica scelta di dj Fabo e le connesse mosse post-pannelliane, molto ma molto post, di Cappato.
Non prendiamo questa china. Oh, non che questo basti, ancorché necessario e doveroso. Il rischio che corriamo in ogni caso, e chi scrive è il primo a correrlo, è di attutire l’urto di un evento così dirompente con la presunzione di individuare facilmente e quindi giudicare le cause. Nel caso della tragedia di via Brozzi, uno potrebbe definirle in due parole, le prime che a me stesso sono venute in mente: compassione e solitudine. Compassione di un padre per la figlia sofferente, e mancanza di relazioni amicali e affidabili. Da cui l’omelia: se la società fosse più solidale, eccetera eccetera.
Ma le cose non stanno così. Nel tardo pomeriggio è apparsa sulla Nazione una lettera della Comunità di Sant’Egidio che ci prende in contropiede e ci impone di uscire dai cliché. Eccola:
“Sabrina era un’artista felice e una donna che aveva cura di sé e degli altri. La sua vita era immersa in una rete di relazioni, con amicizie fedeli che abbracciavano anche i suoi familiari. La Comunità di Sant’Egidio, l’Unitalsi, la cooperativa Barberi, gli amici della parrocchia e della casa del popolo, le persone del quartiere, i colleghi del suo lavoro al Quartiere 5: tutti sapevano di questa sua capacità di dipingere, tanto da avere esposto i suoi quadri alle mostre allestite dalla scuola di pittura della Comunità di Sant’Egidio — l’ultima delle quali a Palazzo Davanzati”.
“Sue opere — scrive ancora la Comunità — sono pubblicate anche nei cataloghi realizzati in occasione delle mostre. I quadri dicono molto di lei, delle sue passioni, del suo gusto per la relazione. In ‘Iqbal’, ad esempio, aveva rappresentato un bambino afghano al lavoro per invocare il diritto all’educazione e all’istruzione. E’ un’opera che fa riflettere e invita a non perdere la speranza in un domani migliore. La tecnica pittorica utilizzata era quella delle mascherine con pennello e spugna. La stesura compatta del colore e al tempo stesso il particolare risalto delle sfumature erano dovuti alla familiarità di Sabrina con questa tecnica che le aveva permesso di superare le difficoltà manuali dovute a una tetraparesi”.
“Nel 2007 — prosegue la lettera — partecipando a una conferenza a Napoli, aveva conosciuto Ceija Stojka, una signora Rom che le aveva raccontato di essere stata deportata e tenuta prigioniera nei campi di concentramento di Auschwitz e di Ravensbruck. Sabrina aveva voluto rappresentare la vita della sua amica prigioniera nelle baracche del campo, costruendo con pezzi di cartone delle sagome e montandole su una tavola di compensato. Il colore nero rappresentava la prigionia, mentre la luce era il momento della liberazione, ma anche la speranza che non si era mai spenta in Ceija, aiutandola a sopravvivere in quei giorni terribili. Una bella foto raffigura Sabrina e Ceija insieme, felici con le loro amiche, immerse nella bellezza di quell’incontro. Chi ha conosciuto Sabrina, la ricorda così. Era un’artista che traeva gli spunti delle sue opere dalle conoscenze dirette, dai rapporti personali che coltivava con cura e passione, dalle tante amicizie che la circondavano. Il laboratorio che frequentava si chiama proprio ‘Laboratorio d’arte degli Amici’ della Comunità di Sant’Egidio, e Sabrina ne era una degli artisti più fedeli”.
Non era lasciata in solitudine, aveva chi si curava di lei. Difficile pensare che Sabrina fosse consenziente quando è stata uccisa. E la signora Gina? Chissà.
Il fondo dell’animo di un uomo che compie gesti così terribili è insondabile, e lungi da noi ogni giudizio sulle persone. Quel che tuttavia sembra apparire dal gesto di Guerrando è certo la compassione, ma intrecciata alla paura. Ed entrambe legate alla presunzione che può essere in ciascuno di noi, genitori, insegnanti, preti, dirigenti: di essere noi il bene dell’altro. Alle strette, il vero unico bene.
E poi chi l’ha detto che la compassione basti? Anzi, la compassione fa brutti scherzi. Acuto su questo il bel pezzo di Rodolfo Balzarotti apparso sul sussidiario di ieri. La compassione, spiega, ci spinge a far risparmiare all’altro una condizione di vita intollerabile, anche sino all’eutanasia; il vero amore però, nel clima sentimentalistico prevalente, non c’è se non è fatto di stima per l’altro.
Balzarotti racconta della sua amica Giovanna, malata gravemente di Sla, che è immobile ma come una calamita crea un movimento di amici attorno a lei. Per stima. Ed è un sostegno lei stessa, che pure è vedova, per la sua famiglia. Lui, Balzarotti, l’ha aiutata a rieditare in forma più bella e compiuta un libro di favole che lei aveva scritto anni fa. E la va regolarmente a trovare perché “mi aiuta a stare nella vita e nelle sue prove”.
Quel movimento di persone che accade attorno a Giovanna nasce da una stima. Da un amore al destino. Prima di scaldarci per soluzioni (?) di legge, sarebbe bene dialogare su questo. L’alternativa infatti alla stima è lo scarto, più o meno legale. Guerrando ha accettato lo scarto. Purtroppo. Con tre colpi di fucile da caccia.