Ci risiamo. Quando si vuole stupire il mondo con un gesto eclatante, a Napoli si minacciano le Vele di Scampia. Assurte ad emblema di malaffare, teatro di gesti efferati nella vita reale come nelle fiction che cercano di assomigliarle, sfiorite per l’assenza pressoché assoluta di manutenzione, le Vele pagano ciclicamente colpe non loro, venendo additate al pubblico ludibrio come le vere generatrici del degrado di uno dei quartieri più popolosi pericolosi e volenterosi della città.



Adesso che il sindaco Luigi de Magistris intasca i soldi del Patto con il governo — 308 milioni che ne liberano altrettanti per rigenerare i pezzi marci della metropoli —, il suo primo pensiero, la prima dichiarazione, va a quelle costruzioni particolari, massicce e sghembe, nate con l’intento di favorire la socializzazione dei suoi abitanti e finite per accogliere un’umanità l’un contro l’altro armata in una lotta fratricida per la sopravvivenza. Sicché invece che degli uomini la responsabilità è delle pietre.



Per questo meritano di andare giù con la pubblicità che si deve agli atti eroici. Finalmente ci si libera degli ingombranti palazzoni e con essi dell’orda criminale che trova riparo nei loro ampi spazi dov’è meglio che gli occhi non si posino. Il primo edificio cadrà in giugno, parola di primo cittadino. Poi sarà la volta di altri due. Ne resterà in piedi solo uno, per il ricordo di una stagione sciagurata e per accogliere gli uffici della città metropolitana che per ora è solo sulla carta.

Deserto fisico nell’area liberata dal cemento e deserto di funzioni nell’unico complesso al quale si darà la possibilità di restare in piedi. Almeno per ora, perché in teoria è sempre possibile che nei pochi mesi che ci separano dal bel gesto le generiche intenzioni di recupero del territorio si trasformino nei progetti urgenti che con calma e gesso si perseguono da decenni. E che università e centri direzionali spuntino come funghi dal terreno sterile delle polemiche.



Benché condannate le Vele saranno dure a morire, come può testimoniare l’allora inquilino capo del Comune Antonio Bassolino che volle sopprimerne una a titolo dimostrativo e quella si rifiutò di piegarsi alla forza della dinamite che sembrò piuttosto farle il solletico. Il tutto, per ironia della sorte, in diretta tv. Ci vollero molte settimane ancora e molto impegno per abbattere quel monumento all’ambiguità forse bruttino ma certamente di sana e robusta costituzione.