Sarà un momento di preghiera a chiudere definitivamente la vicenda terrena di Dj Fabo, l’uomo suicidatosi la settimana scorsa in Svizzera assistito dal personale della clinica “Dignitas” dopo due anni di sofferenze legate ad un incidente stradale e ad un ictus che lo avevano paralizzato e reso cieco. E questo momento di preghiera non sarà né un funerale né una commemorazione. Il Catechismo della Chiesa Cattolica su questo è molto chiaro. Esso afferma non solo che “il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita […] ed è gravemente contrario al giusto amore di sé”, ma anche che “se è commesso con l’intenzione che serva da esempio […] il suicidio si carica anche della gravità dello scandalo”. 



Dieci anni fa non fu il suicidio in sé di Piergiorgio Welby a provocare la levata di scudi della Diocesi di Roma che portò a negargli i funerali, bensì l’uso simbolico che nei giorni precedenti e successivi alla morte si fece di quel corpo e di quella storia. Qui la vicenda ha toni diversi: nessun proclama contro la Chiesa, nessun livore verso la fede, ma solo tanto buio e dolore. Lo stesso Catechismo afferma pure che “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” e termina dicendo che “la Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita”. 



Le ceneri di Fabo sembrano già aver preso la via dell’India e quello della preghiera è il desiderio di una madre che torna nella Chiesa di Battesimo del figlio per affidarlo alla Misericordia del Padre. Insomma, tutta un’altra storia dalla sfida che la famiglia Welby lanciò al Cardinal Ruini sui media nel 2006. E quella che oggi è fatta passare per una storica apertura o per “un grande traguardo” dall’Associazione Coscioni è in realtà una prassi consolidata nella pastorale ecclesiale del post-concilio: accompagnare le persone dentro le vicende della vita distinguendo sempre tra peccato e peccatore. 



Eppure due domande rimangono aperte, una di riflessione dentro la Chiesa e una di provocazione al mondo laico. Da un lato, infatti, è giusto chiedersi dove dovrebbe essere la Chiesa, oggi, se non accanto a chi piange e a chi soffre. Esiste un altro posto per la Chiesa di Cristo che non sia la compagnia reale all’umanità? Una compagnia senza sconti, autentica, ma capace di piangere con chi piange e di sorridere con chi sorride. Quando la dottrina ci allontana dalla vita, quando la Legge ci spinge sull’uscio delle case degli scribi e dei pubblicani allora la prassi in cui quella dottrina è stata tradotta ha un problema. È quindi fonte di conforto e di testimonianza ciò che è stato fatto dalla Diocesi di Milano ponderando bene il caso concreto: esserci perché nessuno può stare nel dolore e nella gioia più del Vangelo, più del Corpo di Cristo.

E, infine, un’ultima — decisiva — riflessione: vedere Marco Cappato che comunica sui social l’orario della preghiera in Chiesa per Fabo fa pensare quanto sia importante per questo nostro tempo senza padri la necessità di ritrovare una madre. È chiaro che Cappato lo fa per cantar vittoria, per dire che i tabù stanno cadendo, ma in fondo quello strano bisogno di essere approvati e accolti dalla Chiesa fa intuire che ci sia molto di più, la nostalgia di una pace, di un abbraccio, che nessuno atto di autodeterminazione può donarci. Solo l’Amore gratuito e imprevedibile di Dio ne è capace. E tanti sermoni del mondo laico si lasciano, in definitiva, sfuggire la consapevolezza che hanno del fatto che quell’Amore entra nella vita degli uomini attraverso le sottane e le parole di quegli odiati preti, gli ultimi profeti rimasti di un modo nuovo e sconvolgente di accogliere e riconciliare l’umano. Anche di chi, paradossalmente, ha scelto la morte come strada per la vita.