Caro direttore, ha ucciso la moglie e la figlia disabile: “Non sono più in grado di assisterla”. E poi con lo stesso fucile ha messo fine alla sua vita, Guerrando Magnolfi, 84 anni, ex custode del cimitero di Brozzi (Firenze).
Leggere di quell’estremo e disperato gesto non può lasciare indifferente chiunque sfogli il giornale e ascolti distrattamente un Tg. Colpisce invece nel profondo dell’anima chi come me, con un figlio disabile, vive una vita in una condizione simile a quella vissuta dal povero padre omicida e suicida.
Quando nacque mia figlia e seppi della sua sindrome Down la prima domanda che rivolsi disperato alla neonatologia dove fu portata, fu: “Ma… almeno… non vivono a lungo?” sperando di avere una risposta affermativa e liberatoria.
Quindi la familiarità con la morte (col desiderio della morte di mia figlia, e con la morte dentro di me) è come se sia stato l’avvio di quest’inattesa esperienza di paternità di un disabile. Ricordo che quando ripresi subito a lavorare (insegnavo in un serale) dovetti inventarmi improbabili sorrisi e gioia agli auguri e alle feste che mi facevano colleghi e studenti, mentre dentro avevo un profondo senso di angoscia e di fallimento e immaginavo il mio futuro come un lunghissimo tunnel buio da cui speravo di uscire quanto prima, sapendo, nel profondo, che non ne sarei mai più uscito.
Che sensazioni terribili. E poi abituarsi a quegli sguardi curiosi e pietosi dei passanti, con cui inizialmente avresti voluto incazzarti dicendo con uno tuo sguardo severo: “che c..zo guardi o fingi di non guardare?”.
Un giorno misteriosamente incrociai lo sguardo curioso di due ragazze che si avvicinavano e che avevano notato la diversità della mia piccola che avevo per mano. Mi stavo preparando a cercare il loro sguardo per guardarle male e distoglierle da ogni inutile commento, anche se non esplicito. Magicamente, e non so perché, mi venne di sorridere loro accogliendo io il loro sentimento di dispiacere e curiosità. I ruoli si invertirono e sperimentai io per la prima volta che cosa significava avere una marcia in più e cosa vuol dire accogliere noi il disagio degli altri.
Facendo il professore e poi il preside ho sempre accolto i genitori di disabili che mi portavano i loro figli, percependo quel velo di tristezza nei loro sguardi e immaginando quanto avessero vissuto anche loro quelle mie primissime esperienze. Fin dai primi dialoghi con loro cercavo di far sentire la mia totale vicinanza rassicurante, osando perfino accennare a quanta intensità di esperienza umana positiva ci era data. Anche se negli occhi di alcune mamme non vedevo brillare alcuna luce di speranza.
Guerrando, probabilmente, col tempo avrà superato quel primo impatto e poco alla volta avrà trovato con la sua cara moglie Gina la forza di accettare Sabrina e quella nuova condizione di padre “speciale” (amo chiamare così i miei amici dell’associazione genitori speciali). Avrà allontanato il ricordo dell’attesa di quel figlio normale che non è venuto, e finalmente liberandosi dalla rabbia di non averlo avuto, avrà certamente lasciato sgorgare tutto l’amore che voleva uscire dal suo cuore verso quella figlia speciale, amandola così com’era in tutte e per tutte le sue fragilità.
Per noi, le tante famiglie speciali, non è stato mai facile: ripenso in particolare a quando Gina e Guerrando avranno iniziato a portarla a scuola. Quanta sofferenza, paura, timore e speranza di trovare le persone giuste, temendo di creare problemi alle insegnanti pur con l’ansia dentro che la piccola fosse accettata e trattata bene e non solo come un peso.
So che sono argomenti trattati ghiottamente dai mass media; so che sono ormai un genere televisivo, anche se spesso con quel taglio pietistico spettacolare lavacoscienza che tanto infastidisce chi, come noi, convive giorno per giorno tutta la vita con questi problemi e non solo guardando la tv una tantum con programmi come “Chi l’ha visto” o “C’è posta per te”.
Infiniti sono gli episodi che si potrebbero raccontare, come forse anche per tutte le famiglie normali. Qui però con intensità estrema, di gioie e dolori dalla prima infanzia all’adolescenza all’età adulta con tutte quelle sfumature specifiche corrispondenti al tipo particolare di handicap.
Mi torna in mente la prima volta che partecipai a degli esercizi spirituali, quando misteriosamente, quasi mi stesse aspettando, il relatore esordì: “sapete come il Signore ci guarda? Come i genitori dei ragazzi Down guardano i loro figli”. Con un amore immenso e consapevoli della loro limitatezza. In quel momento, mentre mi scendevano le lacrime, fu per me come se si spegnessero le luci intorno e dei riflettori puntassero su di me.
Sì, sulle mie domande: perché proprio a me, che peccato ho fatto, che sarà di mia figlia quando non ci sarò più?
Saranno certamente state le stesse domande che hanno accompagnato Guerrando fino ai suoi 84 anni e che in lui non hanno trovato risposte sufficienti per affrontare con serenità la sua vecchiaia e il rischio del futuro. Probabilmente il tempo gli sarà scivolato via sempre con quel pensiero nefasto, all’inizio remoto e progressivamente ravvicinato, ossessionandolo senza mai abbandonarlo: “che sarà di Sabrina quando non ci sarò e quando non avrò più le forze per assisterla?”.
Così come in tutte quelle famiglie nucleari in cui, mancando un fratello o una sorella che potrebbe, anche se non come un genitore, prendersene cura, riappare implacabile il pensiero del limite estremo e della morte del genitore quasi come un appuntamento inevitabile che gradualmente si avvicina e a cui non puoi mancare.
Son certo che uno dei pensieri/desideri paradossalmente e contemporaneamente generosi ed egoistici tipico di molte famiglie speciali è che il proprio figlio muoia prima dei genitori, in modo da non essere abbandonato all’incuria anaffettiva delle istituzioni assistenziali. Anche questo è un pensiero terribile e innaturale, ma che può essere compreso appieno e non per sola immaginazione solo da chi vive tale condizione.
L’avanzare degli anni, l’invecchiare e il vedere venir meno le proprie energie, magari in situazioni di solitudine, avranno macerato e tormentato Guerrando fino all’inverosimile, per consentire ad un pensiero remoto e assurdo di diventare un vero e proprio dettagliato piano di azione.
Non me la sento di dire altro se non “chi son io per giudicarlo?”.