Fanno impressione a leggerle, perché non sono lettere di un normale detenuto nelle carceri Usa ma sono le parole di un condannato a morte. Di un uomo che è cosciente come tra 20 giorni lo uccideranno e in che modo, e vuole raccontare questi suoi ultimi suoi giorni in vita. Un lungo articolo di Vice Us pubblica molti stralci di alcune lettere scambiate tra il pluriomicida Kenneth Williams e Deborah Robinson, che sta lavorando a un libro sugli otto condannati a morte dell’Arkansas nei prossimi giorni. Le parole di Kenneth colpiscono per la loro schietta sincerità, tra i dubbi e le contraddizioni di un uomo che ha recato tanto dolore ma che si avvicina con una sua “dignità” all’orrendo momento della condanna a morte. «Ero in un certo qual modo calmo, perché sapevo che non ero solo, che c’erano altre sette persone—anche se, visto il bene che voglio agli altri ragazzi, avrei preferito essere da solo», si legge tra le prime righe dell’articolo di Vice. Racconta nel dettaglio il momento della chiamata per l’ordine di esecuzione, la reazione con i compagni e ovviamente il pensiero alla sua famiglia, drammatico: «Devo riuscire a perdonare me stesso. Solo allora potrò scrivere a mia figlia, mia figlia di 21 anni, per darle la notizia. Presto raggiungerò sua madre nell’aldilà, lasciandola orfana». L’unico modo, racconta il condannato per cui è possibile quel “perdono” su di sé è dettato dalla fede riscoperta in Dio: «la pace interiore che ho trovato attraverso il mio rapporto con Gesù Cristo mi sostiene». Non solo, questa fede ha permesso secondo Kenneth di chiedere una grazia al governatore: una possibilità  remotissima che però parte dalla sua convinta fermezza nel sentirsi cambiato dopo quattro omicidi (un’oscenità di cui il condannato non nasconde mai tra le righe dei suoi scritti). «Dio mi ha cambiato; anche il peggiore di tutti può essere corretto e riformato. Arrivare a queste considerazioni è stato più significativo che ricevere la grazia. Morirò lo stesso—ma farlo per Dio, quella la considero una mia vittoria».



Il pensiero rivolto alle famiglie delle vittime è lo stesso condannato alla pena di morte in Arkansas a definire “banale e forse superciaile”, ma non per questo meno vero secondo la sua esperienza. «Alle famiglie delle mie vittime, a cui ho arrecato dolore, privazione e sofferenze, per quanto possa suonare superficiale “mi spiace avervi privati della persona che amavate” preferisco dirlo, e dirlo sinceramente, che non dire nulla», scrive ancora Kenneth Williams nelle lettere dal carcere di massima sicurezza. Negli Usa si chiamano “Dead Man Walking” perché si riferiscono a quegli ultimi passi compiuti sapendo di andare in contro alla morte: una fine che il condannato non ritiene mai “sbagliata” anche se ha provato di tutto per poterla evitare, proprio per il suo sentirsi cambiato. Un passaggio su tutti è da brividi e dimostra di una umanità alle estreme condizioni e sotto un dilemma interiore indissolubile per ogni essere umano: «Si sono dimenticati che sono un essere umano, o non gli interessa? Poi ho pensato: Non è stato forse il mio disprezzo per la vita umana ad avermi fatto finire qui?», si chiede in un dilemma tra colpa e riscatto, tra castigo o delitto direbbe qualcuno di molto famoso, l’uomo condannato a morte tra pochi giorni. Si arrabbia perfino con i tanti che gli hanno scritto “tardi” dopo la sua data di esecuzione confermata: «sono cominciate ad arrivare le lettere. E quante ne sono arrivate! Non ne avevo mai ricevute così tante, sono tutti in pensiero per la mia anima. Hai trovato Dio? Hai accettato Gesù come Signore tuo? Senza pentimento andrai all’inferno». L’uomo racconta di averle cestinate tutte visto che li ritiene “opportunisti” che cercano di farsi in qualche modo “belli” nel provare a salvarmi l’anima. La risposta di Kenneth è tanto netta quanto schietta a tutti i presunti “salvatori di anime”: «arrivato a questo punto uno ha già fatto pace con Dio, o non la farà mai». 

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