Una storia incredibile che arriva dall’Iraq e che passa per Roma per una testimonianza in Vaticano dal Papa per poter raccogliere una nuova speranza: un medico, la moglie e i due figli, una famiglia normale ma che di “normale” non ha nulla visto che vive in mezzo alla guerra e al terrorismo in Iraq, sostenendo i tantissimi feriti nel conflitto tra Governo, coalizione internazionale e Stato islamico dell’Isis sul territorio iracheno. Un medico cristiano e la sua famiglia del Movimento dei Focolarini hanno raccontato al portale All Stand Together la loro storia così particolare, ma in una maniera così “semplice” che impressiona. Una famiglia cristiana che ha deciso di prestare soccorso ai tanti colpiti dalla guerra, stando in mezzo al sangue e alla morte e offrendo una speranza e un conforto davvero “paradossale”: «L’ISIS è arrivato nel 2014. Tutti quelli che hanno potuto sono scappati dalla Piana di Ninive; noi abbiamo deciso di rimanere. Io sono un medico e mia moglie è una maestra; vogliamo servire la nostra gente», racconta Bashar al Saqat con semplicità estrema, sottolineando quale sia certamente la fatica più grande in una situazione come quella. «La cosa più difficile è convincere i miei compagni ad operare appartenenti all’ISIS, visti come nemici. Io cerco di convincerli di essere davanti a esseri umani. Per questo motivo è nostro dovere aiutarli, non importa se l’intervento richiesto sia anche di due o tre ore». Curare l’Isis: follia si potrebbe dire ma anche l’unica possibilità per un medico per di più cristiano di poter proporre a quel mondo di ideologia e follia maligna una visione diversa, una modalità diversa di poter vivere e servire il prossimo “chiunque esso sia”.



Ma non è incredibile la storia solo del medico cristiano che “cura l’Isis” ma anche di tutta la sua famiglia che lo accompagna in maniera del tutto attiva: «E’ stato abbastanza difficile. Invece di cucinare per quattro persone abbiamo dovuto farlo per 50. Abbiamo lasciato loro la nostra camera da letto e abbiamo ottenuto nuovi materassi. Ci siamo abituati ad alzarci presto per comprare viveri per tutte le persone ospitate», racconta ancora al portale la moglie, Nabeela Jahola. Una vita completamente dedicata all’accoglienza che non viene innalzato come modello solo a parole, ma viene vissuta con il dolore e la fatica quotidiana. Ma perché fare tutto questo? «Arrivavano di notte e avvertivamo subito il bisogno di aiutarli, di dare loro cibo e un luogo dove riposare»: non c’è un motivo teorico o psicologico che giustifichi questa accoglienza. Solo un desiderio educato all’esigenza di condividere con il prossimo tutto della propria vita: una esperienza cristiana che dalla “povertà” di offrire tutto quello che si è ne ha fatto non un vessillo ma una semplice dimensione quotidiana, non senza problemi come raccontano loro stessi. Una famiglia che è impegnata nella guerra come i soldati e i terroristi, ma che ha decisamente qualcosa da proporre prima che da distruggere… Clicca qui per l’intervista integrale alla famiglia cristiana in Iraq

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