Ventimila persone a Stoccolma hanno partecipato alla Kärleksmanifestation, la “manifestazione per l’amore”, che ha voluto rispondere all’ennesimo camion omicida in Europa con un invito alla pace e alla coesistenza armoniosa fra i vari gruppi etnici e religiosi presenti in Svezia. Nessuna bandiera o slogan, solo musica e silenzio. E nessun partito o movimento politico fra gli organizzatori, che sono partiti da un piccolo gruppo Facebook diffondendo la proposta in modo virale su Internet.



Servono a qualche cosa queste manifestazioni? La domanda forse è mal posta, o almeno va formulata insieme a un’altra: servono a qualche cosa gli attentati? Certamente l’Isis – che non è guidato da stolti: lo stesso califfo al-Baghdadi non è una persona incolta ma un intellettuale con due lauree – non immagina di prendere il potere in Svezia.



Reclutando via Internet immigrati o cittadini europei originari di Paesi a maggioranza islamica, pieni di rancore verso le società che li ospitano e violenti – non importa se buoni musulmani o amici più dell’alcol, della droga e dei bordelli che del Corano – l’Isis vuole creare caos, spaventare i governi e l’opinione pubblica, esacerbare le tensioni fra musulmani e non musulmani, perché sa che più crescono i contrasti, più gli sarà facile reclutare nuovi militanti.

Molto spesso, occorre riconoscerlo con franchezza, l’Isis ottiene il suo scopo. Come reagiamo infatti agli attentati? Anzitutto, chiedendo ai nostri governanti di chiudere le frontiere. Certamente porre attenzione alla possibile infiltrazione di terroristi fra i rifugiati è ragionevole. Ma non è ragionevole dopo ogni attentato chiedere di chiudere la porta a tutti, veri rifugiati compresi. Se si chiudono le porte a tutti coloro che vengono da certi Paesi, com’è avvenuto con gli ordini esecutivi di Trump, non è molto probabile che si fermino i professionisti del terrorismo, che comunque viaggiano quasi sempre con passaporti falsi. Ma è certo che si fermeranno coloro che scappano dalle loro terre perché della violenza jihadista non sono responsabili ma vittime: a partire dai cristiani, ma senza escludere musulmani che non condividono le idee dell’Isis. Veder svanire la possibilità di essere accolte in Occidente rende queste vittime dell’ultra-fondamentalismo islamico ancora più disperate e sole: precisamente quello che i terroristi vogliono.



Insieme, dopo ogni attentato, molti reagiscono con espressioni di odio e di rancore verso i musulmani in genere. La parola “islamofobia” è spesso usata in modo improprio da musulmani per cercare di vietare ogni tipo di critica della loro religione. Ma l’islamofobia – in forme sempre più rozze, minacciose e violente – esiste. E produrre islamofobia è un altro scopo degli attentati. Più qualcuno reagisce al grido di “dagli al musulmano”, più i musulmani che vivono in Occidente si sentiranno odiati e discriminati, più la narrativa dell’Isis secondo cui gli occidentali odiano l’islam apparirà credibile, più sarà facile reclutare militanti e terroristi.

Certamente manifestazioni come quella di Stoccolma scontano un certo grado di romanticismo e di ingenuità. Ma il messaggio, che può sembrare utopistico, è l’unico realistico: “Terroristi, non stiamo al vostro gioco, non rispondiamo agli attentati con la chiusura e l’islamofobia ma riaffermiamo i nostri valori occidentali di accoglienza e di libertà”.

Se c’è un limite nella “Manifestazione per l’amore” di Stoccolma è semmai che questo amore rimane indeterminato e generico. Lo sappiamo per esperienza, non tutto quello che va sotto l’etichetta “amore” unisce davvero. Occorre che l’amore abbia un contenuto e si radichi in una storia specifica, in valori concreti. Amore? Certo. Ma la nostra tradizione europea, che è cristiana, ama anzitutto la libertà, la responsabilità e la giustizia.