Cinque anni fa se ne andava Don Giacomo Tantardini, sacerdote lombardo “trapiantato” a Roma dove svolse l’attività pastorale presso l’Università degli Studi statale (ripetuto poi negli Anni Novanta anche a Padova). Era il 19 aprile del 2012 e se andava così uno dei sacerdoti più apprezzati del Novecento soprattutto per le sue lezioni con i giovani e per i suoi interventi illuminanti sui settimanali il Sabato e “30 giorni”. Con un lungo articolo completamente dedicato a Don Giacomo, oggi sul Mattino Graziano Debellini ha provato ad illustrare il motivo di una presenza e figura così carismatica e importante nel panorama della Chiesa Cattolica, specie nel rapporto educativo con il mondo dei giovani. Debellini lo ricorda così: «Lo ricordo non tanto e non solo come un dialogo che rimandava a quei doni di grazia di cui don Giacomo è stato evidente destinatario, quanto come esemplare sintesi del suo essere cristiano. Di quell’umiltà bambina, che era poi la prospettiva cristiana che per tutta la vita aveva indicato ai suoi e alla Chiesa».
Un rapporto speciale, intimo e mai “disobbediente” al Signore a quella Chiesa che ne rappresenta in corpo e anima la presenza sulla Terra: un affidarsi completamente a Dio, racconta Debellini, che per Don Tantardini rappresentava un semplice e “banale” affidamento costante alla Grazia del Signore. Don Giacomo viene ricordato come un sacerdote autentico che mise in chiaro quale era il problema e il rischio più grave del cristianesimo al giorno d’oggi: «questo stare sospesi alla grazia del Signore, ai gesti che Egli pone nel mondo e nella vita personale, seppur così facile, è praticamente impossibile senza un dono della grazia divina», un attivismo e una mera dottrina ideologica rimarrebbe il cristianesimo se “dimenticasse” questo originario rapporto di filiazione con l’amore divino, ricorda ancora Debellini sulle colonne de Il Mattino.
In queso senso, l’autore ricorda come Don Giacomo Tantardini era una sorta di “anticipatore” del messaggio di misericordia che oggi Papa Francesco innalza a vero zenit della testimonianza di Cristo dalla Chiesa verso il mondo. Erano amici Bergoglio e il sacerdote lombardo, con il futuro Papa Francesco che curò personalmente l’introduzione dei volumi importanti scritti durante la pastorale delle lezioni di Padova: come ricorda Debellini, «ambedue allora relegati nelle periferie della Chiesa: l’uno alla fine del mondo, l’altro nella periferia romana. Capita che dalla periferia certe co- se si vedano meglio.». Bergoglio non fu però l’unico “proto-Papa” che curò una introduzione ai testi di Don Giacomo, visto che Joseph Ratzinger, futuro Papa Benedetto XVI, rimase talmente impressionato da un piccolo libro scritto dal sacerdote collocato a Roma che ne volle curare l’introduzione e la presentazione. «Chi prega si salva»: questa citazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori era una sorta di “mantra” agli occhi di Don Giacomo e diventò il titolo di questo libro che colpì il futuro papa tedesco. Come ricordava lo stesso Don Giacomo nella sua ultima meditazione pasquale del 3 aprile 2007 – riportata oggi da Il Mattino, sotto la testimonianza di Debellini – l’amore in Cristo è una relazione che da sola può davvero salvare il mondo, perché lo ha già fatto. «Il sacrificio della croce è stato possibile a Gesù perché il Padre gli ha infuso nel cuore la dolcezza della grazia dello Spirito Santo. È in lui che Gesù può offrire se stesso. Non è un eroismo la croce, la croce è un rapporto di amore. È il Padre che comunica in pienezza al Figlio la dolcezza del loro amore, la dolcezza dello Spirito Santo». Una “preghiera” del genere, un gesto d’amore così, era quanto Don Giacomo intendeva per fede: semplice eppure così pregno di significato per la profondità dell’animo umano.