I funerali di Emanuele Morganti tenuti a Tecchiena, la frazione del comune di Alatri nella quale risiedeva la giovane vittima del delirante pestaggio di venerdì 24 marzo, consentono ancora qualche necessaria riflessione su quanto è accaduto

I funerali vanno presi sul serio. Con la famiglia che non fa entrare le telecamere in chiesa, il paese che aspetta fuori, gli amici di Emanuele con la medesima maglia bianca e la foto del ragazzo sorridente, i palloncini e le colombe. È la rivendicazione del dolore pubblico, la rimessa in ordine del senso dell’esistenza sociale, la ricostituzione della società locale, così come sceglie di essere. Tecchiena, frazione di Alatri, è tutta rinchiusa in questo momento solenne.



Le parole della madre non cadono a caso, ma sono all’altezza della comunità presente e di un simile momento. Colei che soffre più di tutte e più di tutti ringrazia ciascuno per la vicinanza nel dolore: “Voglio fare io un applauso a voi per tutto quello che avete fatto in questi giorni, per le vostre preghiere, il vostro sostegno. Io vi ringrazio per ogni lacrima”. Le parole non sono casuali, non vanno solo rispettate ma vanno comprese: legittimare le lacrime vuol dire fare del dolore una risposta, vuol dire riconoscere l’ampiezza del dolore condiviso e del legame che questo rivela.



Occorre allora ripartire da questa madre. Qualunque intervento deve includerla, dobbiamo averla con noi questa donna che, al momento dei funerali, ringrazia tutti per la vicinanza nel dolore. Perché è il dolore e lo smarrimento di tutti, con la sua ampiezza, che certamente dà la misura del baratro che il delirio di Alatri ha aperto. Il dolore è la cifra reale, quella che dice la verità del male compiuto; ed è un dolore tanto più profondo quanto più il male è stato feroce ed insensato.

Ma un tale dolore, così coralmente sentito, e così autorevolmente riconosciuto dalla più colpita dei presenti, non ha nulla di reattivo, non è la risposta automatica a quanto è accaduto, ma è già una ricomposizione, è già una riflessione ragionata. Questa madre si sta già guardando intorno perché accanto al suo dolore, devastante, riconosce il dolore solidale degli altri, e vi si mette in relazione. Questa madre rompe il cerchio dell’orrore senza fine riconoscendo non solo la compagnia di un’intera comunità, ma soprattutto interpretandola nella sua componente più umana: quella della condivisione del dolore. Questa madre dice alla comunità di Tecchiena ciò che questa è: una compagnia da ringraziare, per ogni lacrima, per ogni preghiera, per ogni prossimità. I funerali di Tecchiena, la sua comunità solennemente riunita, danno allora la cifra di una nobiltà degna che la madre di Emanuele ha saputo intercettare, riconoscere e ringraziare. Da qui, tutto ricomincia, ed è tutta un’altra storia.



Allora gli assassini di Emanuele e quanti hanno collaborato con loro restano adesso veramente da soli, con le loro vite perse per sempre, perché chi uccide o collabora a uccidere, chi partecipa e condivide la ferocia di un simile delirio non può, né potrà mai più, rientrare in casa come se nulla fosse accaduto. Non avrà più accesso ad una vita umana, ad un mondo da costruire, ad una felicità da edificare. Il baratro che ha contribuito a scavare non sarà mai riempito. Per ciascuno di loro è già tutto concluso, perché non si ritorna alla vita, quella vera, quella che dà la gioia autentica quando si è ucciso a sprangate un ragazzo di vent’anni senza che nessuna guerra fosse stata dichiarata, senza che nessuna violenza fosse stata subita; quando si è ucciso solamente in nome della propria sovrana ed animalesca presunzione.  

Coloro che hanno ucciso Emanuele sono quindi condannati ad una vita già esaurita. Oramai si imbattono in un mondo che ha bruciato ogni ponte, ogni relazione possibile con la sotto-cultura nella quale bivaccano da anni e che adesso non li riabilita affatto, ma sta loro davanti con tutto il suo carico di esplicita follia. Tra loro e la comunità di Tecchiena, tra loro e questa madre nobile, tra la loro introversione delirante e questa madre che sa guardare e sa riconoscere l’affetto e la vicinanza del pianto altrui, c’è oramai una distanza infinita. 

C’è un’intera china da risalire, un recupero di principi da sottoscrivere e di leggi da riformulare. Ma non si tratta solo di alzare il livello dei vincoli e di farli rispettare, si tratta anche di recuperare un progetto di dignità umana, quella che questa piccola comunità ha saputo dimostrare e la madre di Emanuele riconoscere. Ricominciamo da qui.