Alla Biennale Democrazia in corso oggi a Torino ha parlato una delle rarissime imam donne d’Occidente: ha partecipato all’incontro con titolo, «Donne e religioni: emancipazione e oppressione», raccontando la sua personalissima esperienza di donna musulmana in una religione che presenta spesso casi di difficoltà, incomprensione e talvolta anche violenza. La donna-Imam danese è figlia di un’infermiera cattolica finlandese e di un rifugiato siriano torturato e imprigionato per opposizione al regime;  laureata in Sociologia delle religioni e Filosofia a Copenaghen e un master a Damasco conferiscono a Khankan lo status di una rappresentante a tutti gli effetti della religione musulmana nella sua “Danimarca”. In una intervista alla Stampa di Raffaella Filippo, la donna racconta la sua storia: «Sono stata allevata tra due culture e religioni e credo che il mio destino sia fare da ponte: sono una specie di diplomatica. Metto il velo solo per pregare e non mi identifico con una nazionalità: la mia casa è la mia famiglia». Già particolare il motivo per cui ha scelto di aderire alla religione coranica: lei donna convinta dal padre che la dimensione mistica del Sufismo fosse la scelta migliore per poter «diventare quello che volevo». È la direttrice della Moschea Maryam di Copenaghen, in un Paese che ha sofferto nel recente passato per i disastri e polemiche dopo gli attacchi ai vignettisti che ironizzavano su Maometto e la religione musulmana. «Vogliamo essere una voce alternativa dell’Islam, più moderna e spirituale, ispirata al Sufismo, che intrecci Oriente e Occidente, tradizione e modernità», sfida ancora la Khankan. «Vogliamo sfidare le strutture patriarcali dell’Islam dall’interno, ma anche l’interpretazione patriarcale del Corano: in realtà è una religione di pace, non di oppressione».



Una donna forte che non intende cedere alla violenza e che intende anzi, da imam religioso musulmano, predicare un progressismo islamico. Come? «La tragedia dell’11 settembre 2001 ha reso i nostri sforzi ancora più faticosi: il dibattito multiculturale improvvisamente era centrato sulla paura e l’Islam ha passato gli ultimi 15 anni a difendersi, invece di riformarsi al proprio interno, promuovere valori progressisti e l’uguaglianza tra uomini e donne». Questo tentativo però non le ha evitato le tantissime polemiche interne anche al mondo islamico, che lei stesso ammette ancora durante l’incontro alla Biennale Democrazia, «uando si toccano le strutture patriarcali, si cambia la bilancia di potere e per forza si suscitano critiche. Ma non vogliamo delegittimare nessun’altra moschea e abbiamo solide basi teologiche, quindi abbiamo deciso di focalizzarci sulle cose positive e non sulle critiche». Le donne islamiche hanno bisogno come tutti di un posto dove pregare ed essere sicure; «Le donne musulmane hanno bisogno di un posto in cui pregare, confrontarsi, trovare conforto, senza sentirsi estranee o giudicate: sto anche studiando psicologia per essere loro più vicino». In conclusione all’intervista alla Stampa la donna imam danese esprime anche la sua speranza più viva nei prossimi anni di dialoghi e lavori di unità, piuttosto che violenza, di ponti piuttosto che muri: «Vorrei che le donne avessero più voce nell’Islam, è anche un modo efficace di combattere l’islamofobia, perchè l’Islam non sarebbe più visto come una cultura maschilista e oppressiva». Il vero sogno di Sherin Khankan è infatti quello di creare un network femminile per il dialogo religioso; il prossimo 14 settembre la sua comunità scandinava sta organizzando incontro tra religiose cristiane, musulmane ed ebree per dimostrare che è possibile capirsi. «Credo che le chiavi della pace stiano nelle mani delle donne».



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