I dati Ocse raccolti in occasione del test Pisa 2015, diffusi da tutti i mezzi di stampa, disegnano un quadro impietoso degli adolescenti italiani. Fotografati al termine dell’obbligo scolastico, i ragazzi di seconda superiore vengono presentati come più ansiosi dei loro coetanei europei, fortemente dipendenti dal giudizio e dalle attenzioni dei loro genitori, irrimediabilmente contagiati dal virus di internet e dalla bramosia di essere perennemente connessi alla rete.



Al di là dei dati, delle statistiche e dei grafici, l’elemento che balza agli occhi è l’inconsistenza apparente dei ragazzi, un’inconsistenza non dovuta a fattori legati all’intelligenza o ad attitudini superficiali dei giovanissimi, ma legata all’assenza dell’adulto, di chi — per andare all’etimologia latina del termine — fondamentalmente “fa crescere” la persona. E’ proprio la separazione di questo binomio, adulto e crescita, a segnare profondamente questo nostro tempo. La scuola italiana, negli ultimi decenni, ha voluto connettere il termine adulto alla parola “produzione”: l’adulto è colui che ti rende capace di produrre. Nei restanti paesi europei ciò che fa crescere è il contesto, competitivo o assistenziale, oppure la produzione è così premiata — nell’ottica del cosiddetto “merito” — che l’adulto può anche permettersi di non educare, ma molto più semplicemente, di limitarsi ad “insegnare”, a “trasmettere” saperi e virtù.



Siamo di fronte ad una fortissima mercificazione dell’adolescenza: in un paese a tradizione umanista, dove fin dai tempi di Cicerone l’obiettivo era l’edificazione morale dell’uomo, il Sessantotto ha lentamente introdotto un nuovo paradigma in cui il sistema di istruzione si arroga il compito di dare tutto ai ragazzi, insegnando loro come riprodursi, come guidare, come mangiare, come fare la raccolta differenziata, come lavorare, come interfacciarsi con lo Stato e i propri coetanei. Loro, i giovanotti, devono solo imparare a produrre, a “essere utili” e a stare nelle regole. E’ stato ucciso il piacere della scoperta, dell’avventura personale, dell’errore. A tutto è stato sostituito un onnipresente bisogno di prestazione, perfezione e adempienza.



Così il rapporto Ocse sul Benessere dei giovani, volendo fotografare un insuccesso, e descrivendo i nostri adolescenti come annoiati, pigri e mammoni, fotografa in realtà la ribellione del loro cuore che — davanti all’evoluzione della società — cerca semplicemente qualcuno che li accolga e che voglia loro bene. 

C’è nel nostro tempo un desiderio strisciante di smettere di essere “merce” in balia di una multinazionale totalitaria del sapere e dell’istruzione per tornare ad essere persone. Certo: assecondare questo desiderio, andargli dietro, richiede fatica, richiede capacità di strapparsi dalle proprie misure e dalle proprie abitudini borghesi. Ma è questo che vuole la vita, è per questo che ci servono degli adulti. Per non soccombere ad un mondo che vorrebbe semplicemente ridurre i ragazzi ad un ingranaggio del tutto, un ingranaggio cui insegnare come deve funzionare perché il sistema possa andare avanti. La solitudine che il rapporto di Pisa descrive non è altro che l’ultimo avamposto di un desiderio di bene ferito che ci chiede, anche attraverso i casi di violenza quotidiana che popolano le pagine dei giornali, di essere semplicemente ascoltato, semplicemente ospitato.