Il disegno di legge in materia di consenso informato e biotestamento approvato ieri alla Camera ha, tra i suoi obiettivi, quello di provare a codificare quel principio dell’alleanza terapeutica su cui si fonda la relazione medico-paziente, così cercando altresì di dettare le coordinate per la disciplina di situazioni delicate come quelle dell’efficacia della volontà del paziente non più capace di intendere e di volere. Questo tentativo incarna uno dei compiti più alti della politica; il legislatore, il cui protratto silenzio è stato sino a oggi colmato da dibattute decisioni giurisprudenziali, assume ora la sua più ardua ma necessaria funzione. Egli, infatti, è il soggetto deputato a selezionare in modo equo il contenuto delle scelte pubbliche, anche e soprattutto in quegli ambiti dove maggiore è il disaccordo “etico”.



La delicatezza di questo compito si coglie con tutta evidenza nelle disposizioni oggetto dell’attuale dibattito parlamentare (già commentate e illustrate su queste pagine) che lasciano, allo stato dell’arte, molteplici interrogativi aperti. L’affermazione del consenso informato quale atto fondante del rapporto medico-paziente, oltre a prestare il fianco a eventuali criticità in punto di responsabilità civile e penale del professionista, rischia di rendere il medico un mero esecutore della volontà del paziente. Attraverso l’assolutizzazione del mero dato volontaristico, il consenso informato viene privato della sua capacità di esaltare l’attitudine morale della professione medica. Il consenso deve essere strumento per la valorizzazione della volontà del paziente, il quale è messo nelle condizioni di acconsentire o meno a una decisione del medico all’interno di un rapporto che ha come fine il bene del malato nella sua multidimensionalità.



Un rapporto è fatto dell’incontro tra due soggetti, tra due volontà, tra due situazioni ognuna con le proprie peculiarità e tale rapporto diventa utile all’uno e all’altro se queste due diverse realtà riescono a dialogare tra loro, pur mantenendo la consapevolezza delle proprie diverse condizioni esistenziali. Da una parte, il medico, con il suo bagaglio di competenze e sapere tecnico a corredo della propria posizione di garanzia, e, dall’altra, il paziente che, in una condizione di oggettiva fragilità e con tutto il suo anelito di libertà, a lui si rivolge per cercare risposta.



Se questa è la delineazione del rapporto medico sul piano fattuale, assolutizzare il solo elemento volontaristico tramite disciplina giuridica rischia di ingenerare un cortocircuito. L’inevitabile non attualità delle disposizioni anticipate di trattamento (che possono diventare operative anche a distanza di anni dalla redazione) e la mancata previsione compensativa di una “data di scadenza alle dichiarazioni” sono autenticamente capaci di garantire la libera scelta del paziente (si ricordi, infatti, che in precedenti disegni di legge le dichiarazioni cessavano i propri effetti decorsi 5 anni dalla sottoscrizione)? Cosa accade laddove ci si trovi in presenza di persone incapaci, che non sono mai state in grado di formare la propria volontà e di esprimerla a viva voce?

E, ancora, non si tralasci l’altra libertà che si gioca nel rapporto di cura, ovverosia quella del medico. Fino a che punto il medico può mantenere uno spazio di libertà di scienza e coscienza per confrontarsi con le decisioni del paziente e quali, se esistono, i limiti della configurazione in termini automatici della sequenza applicativa delle disposizioni anticipate di trattamento? Rispetto a quest’ultimo profilo, merita menzione l’emendamento approvato durante la votazione di ieri con il quale si svincola il medico da un obbligo professionale laddove il paziente chieda la sospensione di terapie o trattamenti imprescindibili per la sopravvivenza (tra i quali, ad esempio, la nutrizione e l’idratazione artificiali). Si viene così a configurare un’ipotesi velata di obiezione di coscienza, che sembra compensare il divieto di esonero dall’applicazione delle norme sul fine vita da parte di cliniche private convenzionate con il sistema sanitario, nel caso in cui tali norme non siano «rispondenti alla carta dei valori su cui si fondano i propri servizi». Al contempo, però, anche questa apertura – che è il frutto di un bilanciamento almeno in astratto attento alla sfera di libertà non solo del paziente ma anche del medico – rimane monca di una più approfondita disciplina. Lacuna, questa, che potrà dare adito a numerosi interrogativi quando si tratterà di tradurre la norma in una situazione concreta.

Gli esempi sopra riportati mettono in luce come il giuridico è ben lungi dall’esaurire l’etico; il formale, con le sue inevitabili semplificazioni e astrattezze, non può esaurire il sostanziale. Ciò non toglie che esso debba essere animato dalla ricerca di un equilibrio tra la valorizzazione della libertà del singolo – non solo nel suo rapporto con l’autorità, ma dentro la trama di rapporti che questi ha con tutti gli altri membri della società – e la forte componente solidaristica che tipizza il nostro contesto costituzionale.

Questo è il terreno su cui deve lavorare il Parlamento; queste sono le domande che deve porsi e dietro alle quali si cela la sfida più profonda e più radicale. Perché prima di tutto e tenendo conto di tutti gli aspetti più di dettaglio, c’è una autentica e ineludibile domanda che sola può aiutare a tenere alto lo sguardo su questo disegno di legge: cosa sono per noi oggi libertà, dignità e solidarietà?

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