Anche nel Regina Coeli della seconda domenica dopo Pasqua, la domenica della misericordia, Papa Francesco ha cercato di proporre al mondo contemporaneo una prospettiva sociale e politica costruttiva rispetto a quelle “sfasciste” spinte dai movimenti populisti dell’Occidente, una prospettiva lontana dalla “civiltà dello scarto“, tante volte esecrata dal Pontefice, perché profondamente radicata nell’amore.



In effetti oggi “una domanda interpella la nostra responsabilità: quale civiltà si imporrà nel futuro del pianeta? Dipende da noi comprendere se sarà la civiltà dell’amore oppure la civiltà — che più giustamente si dovrebbe chiamare “inciviltà” — dell’individualismo, dell’utilitarismo, degli interessi contrapposti, dei nazionalismi esasperati, degli egoismi eretti a sistema”. San Giovanni Paolo II pronunciò queste parole durante un Angelus del 1994. Di fronte a ciò che restava del totalitarismo sovietico e al più subdolo totalitarismo capitalista, il papa polacco indicava già allora una terza via — quella appunto della civiltà dell’amore e della misericordia — come la vera alternativa per il nuovo millennio.



Pochi anni dopo Benedetto XVI annotò, a poche settimane di distanza dal discorso di Ratisbona, che solo una ragione aperta, supportata dall’amore, sarebbe stata in grado di costruire una simile civiltà. In un Angelus del gennaio del 2007 pregò perché “i cristiani sapessero esprimere la ragionevolezza della loro fede e testimoniarla in un dialogo ispirato dall’amore” sottolineando che, con una tale concezione di ragione impastata di misericordia, “san Tommaso d’Aquino riuscì ad instaurare un confronto fruttuoso con il pensiero arabo ed ebraico del suo tempo, sì da essere considerato un maestro sempre attuale di dialogo con altre culture e religioni”. 



Lo stesso Papa emerito, proprio alcuni giorni fa, in un messaggio scritto per un simposio sul suo pensiero ha di nuovo sottolineato e ribadito come “il confronto fra concezioni radicalmente atee dello Stato e il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva, le cui conseguenze sperimentiamo ogni giorno. Questi radicalismi esigono urgentemente che noi sviluppiamo una concezione convincente dello Stato, che sostenga il confronto con queste sfide e possa superarle”.

Questa concezione, ha detto ieri papa Bergoglio all’Angelus, non può esimersi dal considerare la misericordia come una vera forma di conoscenza. “Sappiamo — ha spiegato il Papa — che si conosce attraverso tante forme. Bene, si può conoscere anche attraverso l’esperienza della misericordia, perché la misericordia apre la porta della mente per comprendere meglio il mistero di Dio e della nostra esistenza personale. La misericordia ci fa capire che la violenza, il rancore, la vendetta non hanno alcun senso, e la prima vittima è chi vive di questi sentimenti, perché si priva della propria dignità”. Nel pomeriggio il Papa ha avuto modo di indicare in don Milani un testimone di questa misericordia descrivendolo come un innamorato di Cristo, un educatore ferito, capace di portare nel mondo dell’istruzione quello sguardo appassionato di cui oggi abbiamo bisogno per costruire la civiltà dell’amore e del dialogo auspicata dai Pontefici che ci hanno traghettato in questo convulso terzo millennio.

Coloro che, come don Milani, hanno fatto “indigestione di Cristo”, ha precisato il Papa, certamente rischiano molti errori, percorrendo sentieri originali, talvolta difficili da accogliere e da comprendere nell’immediato. Eppure è di questi profeti, di questi padri, che le giovani generazioni hanno bisogno per uscire dal labirinto dell’ideologia, ma soprattutto per superare il dolore più grande: il dolore che sorge dall’intima convinzione di essere orfani d’amore e che ci fa guardare tutto con cecità e violenza.