Un padre uccide la figlia su Facebook Live e poi si suicida; un uomo, disturbato, dopo una delusione d’amore uccide senza pietà un qualsiasi passante mentre riprende il tutto con il proprio smartphone, diffondendo discorsi deliranti e offerti alla rete prima dell’immancabile e drammatico suicidio. E così via, sono sempre di più i casi – nella cronaca di tutti i giorni, anche non per forza fino all’estrema conseguenza della morte – di un uso dei social, della tecnologia e delle nuove forme di comunicazione alquanto pericoloso. La Stampa di oggi ospita un interessante intervento di Massimiliano Bucchi, professore di Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento: il titolo è già eloquente e fa della sua ricerca dell’”algoritmo dell’etica” il fondamento della sua provocazione. «La rivoluzione delle tecnologie digitali e della comunicazione sui social network ci ha travolto senza che fossimo in grado di comprenderne davvero le implicazioni. Abbiamo scambiato la facilità d’uso di questi strumenti con la capacità di attrezzarci per gestirne, oltre che le opportunità, le possibili controindicazioni». Gli interrogativi lanciati dal professore scuotono coscienze e gettano una profonda analisi su quanto oggi e soprattutto nei prossimi anni l’umanità potrebbe sempre di più andare incontro in termini di rischi e pericolose “mode”. Oggi deleghiamo tanto, spesso tutto, a questi “mezzi”, come Google, Facebook e tanti altri ancora, che attenzione non vanno demonizzati (rappresentano una forma di incredibile libertà e evoluzione raggiunta dall’uomo moderno) ma neanche elevati a “divinità” suprema per il solo fato che ci permettono di avere completo spazio d’azione e di comunicazione. «Una società in cui sempre più spesso ciascuno di noi pensa poter giudicare la preparazione dei nostri figli meglio dei loro insegnanti, di poter deliberare meglio di qualunque rappresentante dai noi stessi eletto, di poter decidere della nostra salute meglio di medici e istituzioni sanitarie», scrive ancora Bucchi su La Stampa. Una responsabilità in termini che, portata alle estreme conseguenze, arriva anche mostrare davanti a tutti quando si decide di mettere fine alla vita propria o peggio ancora a quella altrui. Dunque, come uscirne?
Ci pare che il nodo centrale sia il termine responsabilità: non in quanto “colpa” ma nel senso più pieno e originario, di una capacità di poter rispondere del proprio comportamento e della propria moralità rispetto alla realtà circostante. Un “algoritmo dell’etica” è una evidente provocazione ma aiuta a dare la cifra di un problema annoso che sta divenendo sempre di più parte integrante della nostra vita: «Perché chi scrive su un quotidiano o parla in televisione deve avere delle responsabilità (legali e morali) e chi comunica attraverso la rete – e soprattutto chi davvero ne gestisce il business – non deve averne nessuna?», si domanda il professore nel suo intervento su La Stampa. I confini di tale responsabilità sono andati smarriti ma non è detto che possano essere per sempre “perduti” senza alcuna speranza. Un richiamo ad una propria responsabilità, esattamente come avviene nella formazione di una famiglia e nella crescita sul lavoro, comporta inevitabili fattori di rischio ma è possibile proprio in virtù di un rapporto “sano” ed educato con la realtà che si ha di fronte (un figlio, una moglie, una mansione, la propria stessa vita). Ecco quello che spesso manca, dal momento che ad esempio abbiamo voluto per anni delegare tutto a “responsabilità” altrui, salvo poi rivendicare un maggiore spazio di incidenza personale, ma come reazione cieca e individualista e mai come atto di “responsabile” presa di coscienza del problema. «Ma dobbiamo essere noi a stabilire i confini e la natura di questa responsabilità, non delegarla agli algoritmi dei colossi digitali: hanno già un potere immenso grazie ai nostri dati e alla condizione pressoché monopolistica, vogliamo dargli anche la possibilità di stabilire che cosa e come va comunicato?», richiama il professor Bucchi con la provocazione interessante sul suo “algoritmo dell’etica”. I cambiamenti spiazzano sempre; per fare in modo che non ci sovrastino ma che diventino una sana relazione uomo-tecnologia-realtà occorre non “delegare” di continuo ma, forse, avere più cura della propria vita responsabile. Che sia virtuale o reale, da questo punto di vista, poco cambia.