L’inventore e venditore del metodo stamina, professor Davide Vannoni, è da ieri mattina in stato di fermo per ordine della magistratura torinese. Per anni Vannoni ha cercato di piazzare in Italia la sua terapia contro le malattie neurodegenerative basata sulla somministrazione di un infuso di cellule staminali. Il mondo scientifico ha stabilito che il beverone è una patacca, e la giustizia, già tra anni fa, gli aveva intimato di smetterla. Vannoni promise che non l’avrebbe fatto più, patteggiando una pena di un anno e dieci mesi con la condizionale. 



Invece c’è ricascato. Se non posso farlo in Italia, si è detto, lo faccio all’estero. Se tanti italiani volano nell’Est europeo per le cure odontoiatriche, avrà pensato, perché non dovrebbero volare anche i malati di Alzheimer o di Parkinson o di Sla? Detto, fatto. Ha fatto piazzare a Tbilisi, Georgia, tra le montagne del Caucaso e il Mar Nero, una filiale, la Stamina, con forma giuridica di cooperativa, insomma una cosa tipo kolkoz, con lui “supervisore”. E con tariffe poco georgiane: 18-20mila euro per tre beveroni staminali, sconto per il ciclo di cinque beveroni (25-28mila euro).



Ora, i governanti georgiani hanno mille problemi, basta osservare sulla carta geografica chi hanno attorno, ma fessi non sono, e mesi fa hanno dato al professore e al suo kolkoz il benservito. Anche gli inquirenti italiani fessi non sono, anzi nel tempo si sono fatti più guardinghi e non gli è sfuggito che il Vannoni tesseva rapporti con Cipro, Bielorussia, Ucraina, Santo Domingo; e si sono fatti pure più sospettosi, e così hanno letto la vendita della Porsche come premessa di una imminente fuga transnazionale, probabilmente caraibica, del Nostro.

Questo il succo della notizia di giornata, ultimo atto, per ora, di una vicenda decisamente comica e grottesca considerando due dei suoi protagonisti, e cioè il Beverone e il Vannoni, che il premio Nobel per la medicina Randy Schekman ha rispettivamente definiti “criminale” e “ciarlatano”. Certo, sono definizioni che solo un Nobel può permettersi, ma è pur vero che la terapia è risultata inefficace se non dannosa agli esami scientifici, e che il Vannoni professore sì lo è, ma non dottore nel senso di medico, essendosi laureato in scienze della comunicazione ed essendo docente della medesima all’Università Nicolò Cusano (sul cui sito però attualmente non figura nell’elenco dei docenti). La sua prima start-up non a caso fu la Cognition, società di comunicazione che ebbe contratti con la Regione Piemonte. La stessa Regione cui Vannoni cercò di piazzare il suo metodo, anni dopo, dopo cioè aver scoperto cellule e provette nel 2007 in Ucraina e dopo aver creato in Italia una nuova start-up, la Stamina Foundation onlus (ora cancellata dall’albo delle Onlus).



Umberto Veronesi, contrario sin dagli inizi alla terapia del professor Vannoni, osservò che “il caso ripercorre il canovaccio delle vicende Di Bella e Bonifacio”, cioè di pratiche messe in atto sotto la spinta della piazza e non dei dati scientifici.  Pretendeva di curare il cancro, Bonifacio, con un ignobile estratto di sterco di capra. Un altro, Simoncini, più garbatamente ma altrettanto inefficacemente, con il bicarbonato. Di Bella pensava di curare il cancro con un cocktail di farmaci chiamato somatostatina, e tanta gente acclamava lui come salvatore e stramalediva le autorità sanitarie come casta che non lo voleva tra i piedi.

Ecco, osservando la cosa dal lato del terzo protagonista, la povere persone malate e i loro familiari, la vicenda perde la superficie comica e mostra la sua sostanza tragica, il dolore che ci fa creduloni, perché — ahimé — ciascuno è molto facilmente incline a prendere per vero quello vorrebbe che lo fosse, e di affidare la speranza agli apprendisti stregoni. Tanto più che, paradossalmente, ci ha resi più vulnerabili l’aver succhiato dallo scientismo positivista de noantri la falsa certezza che la medicina possa essere infallibile. E così, se non è quella ufficiale a guarirci infallibilmente, certo lo deve poter fare quell’altra. Siamo inoltre ormai così naturaliter sindacalisti — dei nostri figli avverso le maestre, del paese avverso la Tav, di noi stessi avverso i medici — che diventiamo piazza. Un popolo non si fa cavalcare tanto facilmente. La piazza, ahimè, sì. Abbiamo bisogno di riconoscere chi ci aiuti a desiderare la vita nella verità, come si esprimeva il grande Vaclav Havel, e imparare da loro. Ai venditori di elisir di lunga vita, in tanti campi, abbiamo già dato. Troppo.