Nell’ambito del processo a Stefano Binda, unico indagato per l’omicidio della studentessa Lidia Macchi, avvenuto trenta anni fa, oggi in aula, in occasione della seconda udienza, ha preso la parola Giorgio Paolillo, l’allora capo della Squadra mobile di Varese. Il teste ha così affrontato le tappe iniziali delle indagini rivelando come il padre della vittima presentò la denuncia solo il giorno successivo alla scomparsa della ragazza, avvenuta il 5 gennaio 1987. Della giovane si persero le tracce dopo che fece visita ad una sua amica in ospedale eppure, come dichiarato dal testimone, il signor Macchi presentò denuncia solo il pomeriggio successivo. L’ex dirigente della Squadra mobile, come rivela La Prealpina online, su questo preciso punto dichiarò che il padre di Lidia Macchi non presentò immediatamente denuncia dopo la scomparsa della ragazza in quanto pensava che quella della figlia fosse “una fuga d’amore”. Anche se la denuncia arrivò tardivamente, la telefonata della madre di Lidia giunse in questura a mezzanotte e mezzo, non vedendo rincasare la figlia. “Diedi subito ordine alle pattuglie di perlustrare fossati e burroni. L’ipotesi più probabile era che la Panda di Lidia fosse uscita di strada”, ha dichiarato Paolillo in aula nell’ambito della seconda udienza.
Nella giornata odierna si è tornati in aula in occasione della seconda udienza del processo per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa uccisa la sera tra il 5 ed il 6 gennaio 1987. A trenta anni dall’omicidio, ha preso il via il processo a Varese a carico di Stefano Binda, arrestato nel gennaio dello scorso anno. Ad intervenire oggi in aula, come riporta AskaNews, è stato Giorgio Paolillo, ex dirigente della squadra Mobile di Varese e che all’epoca della scomparsa di Lidia Macchi si occupò di seguire le prime fasi delle indagini. L’uomo, in qualità di testimone nel processo contro Binda, ha evidenziato quali furono i primi sospetti degli inquirenti sul possibile assassino della ragazza, uccisa con 29 coltellate. L’attenzione si concentrò inizialmente su un ex compagno di liceo della ragazza, Giuseppe Sotgiu, amico di colui che oggi rappresenta il solo imputato nel caso Macchi. A destare non pochi dubbi fu la sua versione ritenuta contraddittoria, quando Sotgiu (poi diventato sacerdote) fu sentito per la prima volta il 13 febbraio del 1987, a oltre un mese dal delitto di Lidia. Stando al racconto del testimone, Giuseppe Sotgiu raccontò agli inquirenti che la sera del 5 gennaio era andato al cinema con Stefano Binda e con un altro loro amico.
Successivamente rettificò asserendo che quella sera era rimasto a casa a vedere un film. Dagli accertamenti che fecero seguito emerse che il ragazzo, di fatto, la sera in cui di Lidia Macchi si persero le tracce si trovava da un amico. “E Binda non era insieme a loro”, ha aggiunto l’ex dirigente della Mobile. Oggi in aula, il testimone Giorgio Paolillo ha spiegato perché i loro sospetti iniziali circa il possibile responsabile dell’omicidio di Lidia Macchi ricaddero sull’ex liceale: “Sotgiu non si ricordava bene. Perciò sospettavamo di lui”. Il nome di Stefano Binda, oggi unico imputato a processo per il delitto della giovane studentessa risalente a circa 30 anni fa, emerse per la prima volta proprio dopo l’interrogatorio a Sotgiu, 40 giorni dopo la morte della giovane. Recentemente don Sotgiu è stato indagato per reticenza in quanto per gli inquirenti, in passato aveva tentato di proteggere l’amico Stefano Binda, in carcere dal 15 gennaio 2016 come presunto assassino di Lidia Macchi.