Non è un segreto che diversi dei fondatori delle Brigate Rosse provenissero da un passato di appartenenza alla Chiesa cattolica e a associazioni ad essa legata. Renato Curcio, ad esempio, il fondatore e leader dell’intero gruppo armato, che aveva frequentato il collegio Don Bosco di Centocelle a Roma e la futura moglie Margherita Cagol, studentessa cattolica molto attiva in quell’ambiente, sposata con rito misto valdese-cattolico. Così come non è un segreto che l’idea di fondare più avanti le Brigate Rosse avvenne a Chiavari, cittadina ligure, in un albergo di proprietà dell’Azione cattolica dove si erano riuniti con Curcio diversi militanti alla ricerca di una alternativa più decisa alla lotta studentesca, che sfocerà nella lotta armata.
L’elenco è piuttosto lungo e d’altro canto per un paese che dalla fine della seconda guerra mondiale era stato equamente diviso tra cattolici e comunisti, una visione distorta ed ideologica che mettesse insieme le medesime istanze di libertà e dignità umana non poteva che provocare quella scintilla che insanguinò tutti gli anni 70. E non è un caso che, oltre naturalmente l’efficiente repressione delle forze dell’ordine, a condurre alla resa e al pentimento di almeno una parte dei terroristi rossi fu l’azione della Chiesa, nella persona del cardinale di Milano Martini, che operò attivamente in questo senso. Le armi depositate da alcuni militanti davanti alle porte del palazzo del cardinale furono uno dei momenti più significativi e toccanti di questa azione.
Tra questi c’era anche Ernesto Balducchi, capo della colonna Walter Alasia di Prima Linea, uno dei tanti gruppi armati nati da varie scissioni delle BR. Il 9 giugno 1977, pur non partecipandovi, organizzò la gambizzazione di un capo reparto della Breda, Fausto Sillini. Si era arrivati al punto che i cosiddetti comunisti rivoluzionari sparavano ai comunisti che rifiutavano la lotta armata. Sei colpi di pistola alle gambe davanti ai cancelli della fabbrica. Oggi Balducchi (che da ragazzo frequentò il seminario), dopo aver scontato 8 anni di carcere ed essersi trasferito da anni a Maiorca con moglie e figlio, ha suonato al campanello di Sillini, 94 anni. Titubante, è entrato a casa del vecchio ex operaio che lo ha accolto a braccia aperte. E’ venuto a chiedere perdono quarant’anni dopo e Sillini, che proprio qualche giorno fa al Corriere della sera aveva detto di aspettare ancora chi gli sparò, gli ha offerto una grappa e del salame e si sono abbracciati, chiudendo per sempre il capitolo tragico della guerra civile, perché questo fu, degli anni 70.
“All’attentato contro Fausto Silini non ho partecipato, quel giorno ero in fabbrica. Io lavoravo alla Breda Termo, lui alla Breda Siderurgica. Ma non ho neppure fermato la mano armata ed invece avrei potuto farlo: questo è il mio rimorso. Dal carcere di San Vittore scrissi al cardinale Martini per annunciare la consegna delle armi. Ero il portavoce di un gruppo che aveva deciso quel gesto. Il cardinale mi rispose, non me l’ aspettavo. Allora ho dato l’incarico e le armi, in segno di resa, sono state consegnate. Quel gesto, come quello di oggi, ha un valore universale” ha raccontato al Corriere, aggiungendo questo incontro tra carnefice e vittima è stato “un gesto ecumenico: “Le vittime devono diventare protagoniste, in un processo di riconciliazione. Solo così si riqualifica tutta un’esistenza. Oggi è stato Fausto che mi ha regalato un po’ di serenità in più” ha concluso. Come in un cerchio che finalmente si è spezzato, quei “cattivi” giovani che confusero cristianesimo e marxismo, sono tornati a casa.