Una bottiglia incendiaria, un accendino, una ignota mano criminale, e tre ragazze rom di venti, otto e quattro anni sono morte carbonizzate nell’orrendo rogo del camper dove vivevano con i due genitori e altri otto tra fratelli e sorelle. Crimine orrendo, come ha detto il presidente Sergio Mattarella, chiunque sia stato e per qualsiasi motivo l’abbia fatto: se per razzismo e xenofobia o per una faida interna alla comunità rom. Perché “quando si arriva ad uccidere dei bambini si è al di sotto del genere umano”: parole estreme da parte della massima autorità dello Stato che per indole e per funzione le parole è avvezzo a ben misurarle.
Il camper dove hanno perso la vita Elisabeth, Francesca e Angelica Halinovic stazionava da tempo nel parcheggio di un centro commerciale, in viale della Primavera a Centocelle, periferia di Roma ma neanche poi così fuori mano: si trova a cinque chilometri da piazza San Giovanni, mentre — per dire — Tor Vergata, dove ci sono tanto di università e istituti clinici, è a sedici chilometri.
Quanti rom vivano a Roma di preciso non lo sa nessuno. I funzionari del Campidoglio ne hanno contati recentemente 4.500 nei “villaggi riconosciuti” e 1.145 in quelli “tollerati”, e questi stanno nelle periferie-periferie. Poi ci sono le migliaia che non risiedono nei villaggi, sfuggono ai conteggi e si possono solo stimare, risiedono in auto, o camper, roulottes parcheggiate dove trovano spazio, e questi stanno sempre nelle periferie ma a volte si insinuano più verso il centro.
L’una e l’altra condizione sono di estremo degrado da tutti i punti di vista. I villaggi sono baracchette con wc, racchiuse in un perimetro recintato, per lo più staccati dal resto del tessuto urbano e sociale. Come sia la vita di tredici persone in un camper nel parcheggio di un centro commerciale, non è difficile immaginare. Ovunque emarginazione, delinquenza, sfruttamento dei minori.
Ogni tanto un fattaccio o una disgrazia accende i riflettori, produce esternazioni di cordoglio, promesse di imminenti soluzioni. Nel 2011 morirono quattro bambini nel rogo (non doloso) di una casupola di legno: basta, via le maledette baracchette, tuonò allora il sindaco Alemanno. Molti invocano la chiusura dei campi rom: mai successo nulla perché è impossibile in assenza di soluzioni alternative. Sempre rimasto, anzi incrementato negli anni, il degrado degli accampamenti e il disagio degli “altri abitanti”.
Qualche breve osservazione.
Le città sono anch’esse periferie e dalla periferia andrebbero guardate, colte nei loro bisogni reali e privilegiate in un’azione di buongoverno. Si tratta di periferie urbane, ma anche nel contempo di periferie esistenziali. Lo sguardo sulle periferie esistenziali di artisti come Giovannino Guareschi o Enzo Jannacci resta di un’attualità esemplare, così come il richiamo di Francesco è imprescindibile.
La periferia non sono solo “gli altri”, gli immigrati extracomunitari. Basti pensare che i rom in Italia sono quasi 200mila, metà sono italiani, la stragrande maggioranza sono qui da almeno dieci anni e comunque sono europei. Nomadi sono solo meno del 3 per cento. Senza scordare che in periferia vivono quattro o cinque milioni di italiani sotto la soglia di povertà, e anche i tanti milioni che sono sopra la soglia ma non hanno troppo da sfogliar verze.
Se sono corrette le analisi di Baumann, per il quale la società attuale e la sua economia producono “scarti”, le periferie sono destinate a gonfiarsi. La politica invece guarda ancora le cose dal centro. Vede di solito le periferie come qualcosa da cui tutelarsi, riducendo il problema a quello della sicurezza. Promette insomma di costruire quei muri — non necessariamente alla maniera plateale di Trump — che le paure e le insicurezze diffuse fanno illusoriamente sentire come baluardo di salvezza.
O si fa strada nella politica e nella società la cultura dell’incontro, o ci troveremo favelas nascoste tra il Colosseo e l’Altare della Patria, come a Rio tra Copacabana e Ipanema: basta girare la testa verso il mare, la spiaggia e la sua bella fauna… fino al prossimo rogo.