L’ho vista all’opera — per un’infinità di volte il cui numero ormai mi sfugge —, nel gesto che più mi strega di lei: nel mentre inumidisce un filo di cotone, per farlo passare più facilmente nella cruna dell’ago. Sulle sue ginocchia tiene della seta da cucire, un paio di jeans da riparare, un bottone da riattaccare alla tuta da lavoro di papà. Ancor oggi, quando per la mente mi attraversa il ricordo di lei, me la ritrovo sempre così: con quell’ago che le vibra sulle labbra e che, col filo nella cruna, somiglia ad una sorta di lucertola che s’abbrustolisce al sole. In quella posizione — che è la posizione tipica di chi sta per riparare — mia madre è sull’attenti. Con l’ago e il filo sulle labbra mi appare chiaro il mestiere per il quale quella donna è apparsa al mondo: per cucire la bellezza, per riparare la fatica, per tenere unite le storie. Sono cresciuto “dentro a questa meraviglia che dà la povertà quando è sposata con l’amore”. Lei, nata per tenere-unito tutto ciò che esiste, senza mai saperlo “mi aveva dato così le mie prime lezioni di teologia” (C. Bobin). Ancora oggi m’affascina scrutarla nell’attimo di quel gesto folle, tutt’intenta nel suo mestiere di madre-riparatrice. E tutto ciò esiste, senza mai nascondermi la tribolazione della bellezza, e m’appare di una semplicità bambina.



Fu destino che proprio a lei, donna-di-cuciture, toccasse in sorte la sfida di un taglio-cesareo: per ben due volte altri s’organizzarono per procurarle quel taglio attraverso il quale uscisse la vita. E’ destino delle madri vivere balenando nei paradossi. “La mamma ha tot anni” mi disse un giorno papà quando, seduto a fare i compiti, dovevo imbarcarmi in un tema con soggetto mia madre. Non ho mai discusso l’età di mia madre: la sua data anagrafica è uno dei pochi dati certi ai quali credo senza aver mai veduto. 



Quando, però, ho iniziato ad attraversare il mondo con le mie gambe, ho fatto la scoperta dell’acqua calda: è stata la più bella delle scoperte possibili. Ciò che mi si è annunciato di fronte fu una sorta di rivelazione, di rivoluzione dentro la mia storia: nessuna donna, quando nasce, è madre. Nasce che è una donna, madre lo diventerà negli anni a seguire: la sua maternità sarà la faccia che indosserà la sua vocazione. Nell’attimo primo in cui ebbi consapevolezza di ciò, scoprii la vera età di mia madre: l’età che mi aveva fornito papà era parzialmente-inesatta. Mia madre non aveva gli anni che avevo scritto nel tema, ma aveva la mia stessa età: era diventata mamma il giorno in cui io sono venuto al mondo, nell’attimo stesso nel quale sono nato. Una madre — questa è legge che appartiene alla natura — non nasce madre: viene al mondo in giorno in cui le dicono che le è nato un figlio. Nel caso di mia madre, la donna dell’ago-e-filo, nel giorno in cui vide aprirsi una ferita e, nel mezzo, affacciarsi un pugno di carne che chiamò figlio-mio. Con il figlio nasce anche la madre.



La sua festa è di maggio, la sua presenza di tutti i giorni, la sua memoria è augurio multiplo. La sua specialità, che la rende unica agli occhi alla storia, è d’esserci quando più nessuno ci sarà. Spartisce il mese di maggio con Maria, altra mamma. Di quelle che abitano il mondo, quella di Nazareth rimane la più strana. Diede il meglio di Sé sulla salita che porta al Calvario: mostrò d’essere vera madre quando, pur vedendo, non poté intervenire; pur udendo i rantoli del Figlio, non le fu concesso di soccorrerlo; pur sapendo d’essere capace di venir fuori da quella faccenda, le venne chiesto di starsene in disparte. Il viso di Maria rimase l’ultima pagina-bianca del Cristo nell’attimo della sofferenza bruta. “Credi a tua madre?” mi dissero un giorno. Non credo a mia madre: voglio-bene a mia madre. Crederle è troppo poco: volerle-bene è misura onesta. Per aver scelto dove-stare, anche come-stare: vicina a me, un passo dietro, con ago-e-filo sulle labbra. Pronta all’intervento: mamma è figura di pronto-soccorso. Di cucitura.