Il giallo di Lidia Macchi, continua ad interessare a distanza di 30 anni, soprattutto in occasione del processo che si sta svolgendo e che vede imputato l’ex compagno di scuola, il 50enne Stefano Binda. Stando a quanto rivela Corriere.it, le prove del delitto della sua giovane amica sarebbero da ricercare proprio nelle tante parole scritte a mano dall’imputato, nelle sue numerose agende e nei suoi quaderni. Lui, che amava Cesare Pavese ed era un poeta. Anche se si tratterebbe di fatto semplicemente di indizi e non prove, per gli investigatori proprio quelle poesie, le conversazioni ed i biglietti autografi conterrebbero molte coincidenze che solleverebbero non pochi dubbi sul legame tra l’uomo accusato e l’omicidio di Lidia Macchi. Ad esporre questi dubbi, sono stati nei giorni scorsi due poliziotti della squadra mobile che hanno portato avanti le indagini e che sono intervenuti nel corso del processo in Corte d’Assise.
A sostenere il legame esistente tra Stefano Binda intellettuale cattolico e con il vizio dell’eroina e Stefano Binda assassino di Lidia Macchi è la procuratrice generale di Milano, Gemma Gualdi. Altri indizi del coinvolgimento dell’uomo nel delitto dell’allora 21enne Lidia arrivano dalle parole appuntate da Patrizia Bianchi, la donna che all’epoca dei fatti era cara amica dell’imputato, nonché innamorata segretamente di lui al punto da scrivere ogni sua frase su un’agenda allo stesso dedicata. La Bianchi è anche la donna che riconobbe la scrittura di Binda in una lettera anonima inviata ai genitori della vittima nel giorno del suo funerale. Proprio nel corso di una conversazione con Patrizia, Stefano le disse: “Tu non sai, non puoi nemmeno immaginare che cosa sono stato capace di fare”. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
Continua a rimanere alta l’attenzione per l’omicidio di Lidia Macchi e per il ruolo che avrebbe avuto Stefano Binda, considerato dagli inquirenti come il suo assassino. Un particolare emerso in questi giorni potrebbe distruggere del tutto l’alibi su cui ha sempre puntato il sospettato, ovvero quella vacanza a Pragelato che lo avrebbe portato lontano dalla scena del crimine. E’ per questo che, riferisce Stefano Binda, quel fatidico giorno del 5 gennaio del 1986 non va a trovare Paola Bonari in ospedale. Si tratta di un’amica che aveva in comune con Lidia Macchi e l’ultima persona a vedere la ragazza ancora viva.
Gli inquirenti in questi giorni stanno raccogliendo altre testimonianze, soprattutto di una donna che afferma di essere a conoscenza di un motivo diverso che avrebbe portato Binda a fare quell’assenza. “Stefano mi ha detto che conosceva la ragazza (Lidia Macchi, ndr). ha anche aggiunto […] che anche lui doveva andare a trovare in ospedale Paola Bonari, che però non era andato perché aveva avuto un contrattempo”. Riferisce così la quarantenne alle autorità, facendo emergere un altro dubbio.
Qual è questo contrattempo che ha impedito a Stefano Binda di fare visita a Paola Bonari? All’epoca l’unico indagato per l’omicidio di Lidia Macchi non riferisce alla testimone di essere stato in vacanza, come affermerà in seguito al suo arresto. Per quale motivo? Al centro della vicenda processuale si trova anche il tipo di conoscenza che Stefano Binda aveva con Lidia Macchi.
Secondo il legale della famiglia della vittima, ci sarebbero chiari elementi che “testimoniano quantomeno la reciproca conoscenza”. Si tratta del numero di telefono di Binda che Lidia aveva custodito in un’agenda, la presenza del sospettato al funerale della ragazza, l’invito a cena che i genitori di Lidia Macchi rivolgono a Stefano Binda e Giuseppe Soggiu in occasione del funerale. Come riporta Il Giorno, secondo il legale dei Macchi sarebbe evidente che Lidia conoscesse il suo assassino e che quella sera “abbia fatto salire in auto una persona che conosceva, di cui si fidava”.