La Prima Sezione Penale della Cassazione ha stabilito che “è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina”. La sentenza aggiunge che “la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto”.



Il principio è di per sé impeccabile, ma l’applicazione al caso di specie è discutibile. La Cassazione ha infatti confermato la condanna di un indiano di religione sikh che era stato sanzionato dal Tribunale di Mantova per essere uscito di casa con il coltello rituale kirpan che la sua religione gli impone di portare sempre con sé. La mia perplessità di fronte alla sentenza lascerà sorpreso qualche lettore, cui è dunque indispensabile fornire qualche elemento di contesto.



La religione sikh è stata fondata nel 1498 da Nanak (1469-1539) in un periodo di grandi tensioni fra indù e musulmani in India. Il suo sogno era di riunificare induismo e islam in un’unica religione. Come spesso capita in questi casi, non lo seguirono né i musulmani né gli indù e Nanak finì per fondare una nuova religione, che ebbe successo soprattutto nel Punjab. Oggi i sikh nel mondo sono oltre 26 milioni, di cui un milione nella diaspora indiana in Occidente: oltre 400mila in Gran Bretagna, 300mila in Canada e 100mila negli Stati Uniti.

In Italia, i sikh “etnici” indiani – senza contare gli italiani che seguono varie scuole di misticismo sikh – sono, secondo la comunità, circa 60mila, impiegati per una parte significativa nell’agricoltura e nell’industria lattiero-casearia, benché i primi sikh emigrati in Italia si dedicassero in prevalenza a un’altra loro specialità, il circo. Il dato di 60mila sikh in Italia coincide con quello fornito dal ministero per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione, ma secondo altri studiosi andrebbe ridotto circa alla metà. 



Oggi sono presenti soprattutto nelle province di Cremona – dove il 21 agosto 2011 a Pessina Cremonese è stato inaugurato il più grande tempio sikh d’Europa, che insiste su un’area di oltre 2.500 metri quadri –, Brescia – dove pure dal 2005, nel territorio del comune di Montirone, è presente un grande tempio –, Reggio Emilia – dove un ulteriore tempio fu inaugurato nel 2000 dall’allora presidente della Commissione Europea Romano Prodi –, Parma, Mantova, Verona, attorno alla statale Pontina, a Sud di Roma e nella zona di Arzignano, in provincia di Vicenza. Complessivamente, in Italia, vi sono circa 40 luoghi di culto e – comunque si valutino le statistiche – decine di migliaia di fedeli sikh.

I sikh sono identificati dai “segni fisici della fede”: le cinque “k”, cioè kesh (capelli lunghi raccolti in un turbante, obbligatorio per gli uomini e talora usato anche dalle donne), kangha (il pettine, segno di capelli raccolti in modo ordinato, a differenza della crescita “libera” e disordinata degli asceti induisti), kara (un braccialetto di ferro, che rappresenta il controllo morale nelle azioni e il ricordo costante di Dio), kacha (mutande o sottovesti di tipo allungato, simbolo dell’autocontrollo e della castità) e kirpan. Quest’ultimo è una piccola spada cerimoniale, di cui si sottolinea che è un simbolo religioso di fortezza e lotta contro l’ingiustizia, non un’arma. I “segni fisici della fede” per i sikh sono più che simboli: sono parte integrante della loro identità religiosa.

Il diritto dei sikh a portare il kirpan come elemento necessario della loro identità, il cui divieto violerebbe la libertà religiosa, è stato riconosciuto dalla legge in India e nel Regno Unito, dove esistono specifiche norme al riguardo. Negli Stati Uniti e nella sentenza Multani della Corte Suprema canadese, del 2006, i tribunali hanno deciso che ogni divieto che impedisca ai sikh di portare il kirtan è incostituzionale. Anzi, la sentenza canadese Multani permette esplicitamente ai giovani sikh di tenere il kirpan in aula a scuola durante le lezioni.

La Cassazione italiana si è invece allineata a un punto di vista europeo continentale – inaugurato nello stesso anno 2006 da giudici danesi – secondo cui lo Stato laico non può fare eccezioni alla sua normativa sulle armi per motivi religiosi. È probabile che il caso italiano sarà portato di fronte alla Corte Europea dei Diritti Umani, che però non sempre fa prevalere su altri principi quello della libertà religiosa. 

L’argomento della Cassazione secondo cui un sikh che viene in Italia deve sapere che gli verrà chiesto di conformarsi alla legge italiana si presta a un’obiezione. La legge italiana prevede anche la libertà religiosa. Se hanno ragione i giudici americani e canadesi, impedire a un sikh di portare il kirpan – qualche cosa che per la sua religione non è facoltativo ma obbligatorio – è una violazione evidente del principio di libertà religiosa. Certamente la libertà religiosa non è assoluta: nessuno pensa che possa giustificare il terrorismo, gli abusi sessuali o i sacrifici umani. Ma il caso del kirpan è diverso: come i tribunali di altri Paesi hanno ritenuto, non si tratta di un’arma ma di un simbolo identitario essenziale che milioni di sikh in tutto il mondo portano senza problemi e con rari incidenti.