Un dramma come quello di Manchester fa sorgere in noi molte domande. Una su tutte: perché Dio permette fatti come questo? Mauro Leonardi risponde a un lettore, Simone Busatti.

Buongiorno direttore,
le scrivo due righe perché sono stato molto colpito dall’attentato di ieri (lunedì, ndr) sera a Manchester.

Stamattina, mentre venivo al lavoro, ho acceso la radio, come tutte le mattine, ma il giornale radio era gia iniziato. La notizia quindi non l’ho colta subito. Procedendo, tra un servizio e l’altro del giornale, ho intuito, dai commenti che venivano fatti, che era successo qualcosa di grave. Subito ho provato tramite il telefonino a vedere le news e ho scoperto la terribile notizia.



Quando capita di ascoltare questi fatti di cronaca, mi rendo sempre conto che la testa si affolla di migliaia di pensieri e di domande: perché? quanti morti? speriamo il minimo possibile; speriamo non ci siano amici; speriamo non capiti qua in Italia (anch’io a breve dovrei andare ad un concerto con mio figlio e il pensiero che possa capitare sfiora la mente).



Quello che mi sorprende di più, però, è cosa mi sono scoperto a pensare stamattina: Dopo aver sentito un po’ di notizie sul fatto, alla fine molte domande hanno trovano risposta e la tentazione è catalogare questo episodio come l’ennesimo attentato che è accaduto, con la speranza che mai ne capiti uno a me o ai miei cari.

Scoprendomi con questo pensiero ho avuto come un sussulto e mi sono reso conto che in realtà non tutte le domande erano state esaudite: perché succedono continuamente questi fatti? perché Gesù lascia accadere questi fatti? ama così tanto la nostra libertà da lasciarci sbandare in questa maniera?



Ecco, stare di fronte a queste domande è dannatamente faticoso; stare davanti ai tuoi figli che chiedono ragione di questo è dannatamente faticoso; stare davanti ai tuoi amici e ai tuoi colleghi che cercano di catalogare questo fatto per tranquillizzarsi (come le ho detto, questa posizione la sento drammaticamente umana anche se non ragionevole) è dannatamente faticoso. Ecco, spero di poter incontrare persone, leggere articoli (come spesso mi capita sul suo giornale), vedere fatti che continuino a farmi fare questa dannata fatica, perché in questo modo vorrà dire che io sono ancora vivo (non solo fisicamente).

Simone Busatti

Caro Simone,
sono sicuro che conosci a memoria le risposte che sanno tutti i cristiani: lo capisco dal tono, bellissimo, della tua lettera. Mi riferisco alle affermazioni della nostra fede che parlano del peccato originale, della libertà dell’uomo, dell’origine del male e così via: sono tutte risposte vere, ma sono risposte che non dicono tutta la verità. Perché quando la verità arriva davvero al mistero le parole che servono sono quelle del silenzio. D’altra parte, se il mistero di cui parliamo fosse un mistero interamente raccontabile e dicibile sarebbe un mistero ben strano, non ti sembra? 

Il silenzio di cui parlo però non è un silenzio muto. Il silenzio che tace e basta può fare più male di qualsiasi dolore, perché ciò di cui noi abbiamo bisogno più che mai è della compagnia di una persona, di un accompagnamento, di una carezza. Mi ha sempre colpito che nell’orto degli ulivi Gesù chiedesse la compagnia degli uomini — di Pietro, Giacomo e Giovanni — e invece ottenne solo la compagnia di animali ed angeli: non degli uomini, cioè degli amici: allora, duemila anni fa, non gli venne risparmiato neppure il dolore della solitudine. 

Quindi, dicevo, non un silenzio che tace, non un silenzio muto, ma un silenzio che ascolta. Quando noi cristiani diciamo che di fronte a certe terribili tragedie non ci rimane che la preghiera, diciamo proprio questo: parliamo di un silenzio che è un dialogo di Dio con noi. Un Dio che ascolta il nostro dolore è un Dio che ci fa compagnia. Se leggi il libro di Giobbe, ti accorgi che nessuna delle domande di Giobbe sul dolore riceve vera risposta. Però, lì, Giobbe ottiene quello che davvero ha sempre cercato, e cioè l’incontro con Dio, il dialogo con Dio, la compagnia di Dio. 

Chi pensa che pregare serva per far cambiare le cose, per fare in modo che la vita proceda in un modo invece che in un altro ha capito ben poco della preghiera. Diciamo che è rimasto al livello della preghiera come magia o, tutt’al più, al livello della preghiera da religione pagana o da Antico Testamento. La preghiera cristiana è Dio con noi e quindi noi con Dio. 

La tragedia di Manchester ci fa pregare di una preghiera che non ha risposte ma che è compagnia. Quando i tuoi figli ti fanno domande su queste tragedie tu non devi necessariamente dare loro delle risposte esaustive e complete. O, se vuoi, prova a a balbettare qualcosa, ma non vergognarti di fermarti ben presto. Se anche il tuo sguardo dovesse abbassarsi, il tuo viso rigarsi di lacrime, la tua mano chiudersi nel gesto della paura, non cercare di essere diverso. Mostra loro che il vero modo di stare nel dolore non è capirlo. I dolori che si capiscono, nella nostra vita, sono quelli piccoli. Quelli marginali. Nei dolori grandi, quelli veri, si può solo stare: non li si può capire. Bisogna starci. 

E allora tu stai nel dolore, stacci con tutti e due i piedi. Se starai così, lì troverai la compagnia di Dio. E scoprirai che il nostro non è un Dio che tace, non è un Dio muto. È un Dio che accompagna e che accarezza.