Negli ultimi giorni due episodi hanno riportato in luce il fenomeno della violenza minorile, un limite di età che si sposta sempre più in basso. E’ il caso del figlio di un boss napoletano che trovandosi in carcere ha lasciato la guida del clan al figlio 15enne, il quale non si è fatto scrupolo di uccidere due membri del clan stesso perché “non seguivano le regole del capo”. L’altro episodio che ha suscitato scalpore è l’aggressione di un sacerdote di Reggio Calabria, che voleva allontanare dei ragazzini che in piena notte giocando a pallone erano entrati in canonica sfondando l’ingresso per recuperare il pallone stesso. Alle sue rimostranze uno del branco lo ha aggredito così violentemente da mandarlo in coma (dal quale fortunatamente è uscito). Secondo Patrizia Flammia, che da anni si occupa di ragazzi disagiati di quartieri come il Rione Sanità a Napoli o di Scampia, “questi episodi sono rappresentativi non solo qui al sud, ma ovunque e sono la conseguenza dell’abolizione sistematica di ogni tipo di rapporto e di ogni limite, in modo tale che un ragazzo si sente giustificato a compiere crimini orrendi anche uccidere i propri genitori”.
Che un giovane di 15 anni ammazzi a sangue freddo due membri del suo clan significa essere stati cresciuti in una cultura di morte?
In realtà episodi come questo non sono caratteristica solo di una città come Napoli o di certi quartieri periferici. Io non dico mai che lavoro con ragazzi disagiati, ma normali perché mi dica in questo momento storico quale adulto e quale giovane in ogni parte di Italia non viva situazioni di disagio. Siamo in un clima culturale dove si vuole eliminare sistematicamente il concetto di rapporto.
Cosa significa questo concretamente?
Significa che la vita di una persona è colpita nell’affetto che la sostiene. A Napoli si dice “se pò campà senza sapere perché ma non se pò campa senza sapere per chi”, si può vivere senza sapere perché ma non si può vivere senza sapere per chi. Cioè appartenere a qualcuno. E’ questo che sta scomparendo.
Siamo davanti però a violenze efferate, non pensa che il limite anche di età si stia abbassando sempre di più?
C’è un cambiamento, è vero. Fino a qualche tempo fa c’era forte il senso di appartenenza,i responsabili dei clan non dovevano fare uso di droga. Adesso con l’avanzare di queste sostanze anche i ragazzi ne fanno uso, questa cosa dice di un cambiamento dove non si appartiene più a qualcuno. Le faccio un esempio.
Ci dica.
Ci ha chiamato una scuola a Scampiglia per fare un intervento per i NEET, i ragazzi che hanno smesso di andare a scuola e che non cercano lavoro. Mi sono sorpresa di trovare un certo tipo di persona diversa da quella che mi aspettavo. Mi sono trovata ragazzi di grande spessore umano che conoscevano Van Gogh, altri i Nirvana invece dei cantanti neo melodici. Come mai questi ragazzi hanno abbandonato la scuola? Abbiamo provato a far loro ricostruire il loro percorso scolastico, sono stati per venti minuti in silenzio totale, incapaci di scrivere una riga, non ricordavano neppure il nome di un loro solo ex insegnante.
Questo ci dice di un Io inesistente, di una incapacità a cogliere se stessi e il reale che li circonda?
Senza avere un rapporto con un adulto che faccia vedere cosa hanno dentro, si diventa incapaci di guardare la realtà. Ma mi ha colpito che tutti hanno usato la parola infinito, libertà, o immagini del mare.
Vuol dire che nascosto da qualche parte c’è un desiderio ancora vivo?
Hanno un desiderio dentro che nessuno costruisce con loro. Questo senza accusare gli insegnanti, senza voler cercare per forza qualcuno da incolpare, ma ci dice di un contesto dove si vuole distruggere il rapporto. Il vuoto che rimane viene riempito con immagini: un certo tipo di macchina, un certo tipo di vestiti e di ragazze.
Come vi approcciate a queste persone?
Lavoriamo su due fronti facendo compagnia a chi ha responsabilità, educatori, polizia penitenziaria, perché poi sono loro a rimanere ogni giorno nel contesto specifico. Con i ragazzi prendiamo in carico l’intera famiglia, che non significa assisterla, ma accompagnarla e aiutarla nel compito che è proprio del genitore. Una volta le famiglie erano numerose pur con forti difficoltà economica, ma c’era una comunità attorno che sosteneva. La prima cosa che facciamo è una accoglienza, poi costruiamo insieme la strada più adeguata. Ci sono ragazzi che oggi si stanno laureando provenienti da famiglie in cui questo era impensabile.
L’episodio del sacerdote pestato a Reggio Calabria: in una intervista televisiva la madre ha difeso contro ogni prova a spada tratta il figlio che ha picchiato ill sacerdote, arrivando a dire che il primo a usare le mani è stato lui. Succede spesso che i genitori non accettino di riconoscere le colpe dei figli, è così?
C’è un meccanismo di difesa da parte della madre a prescindere, c’è un contesto molto matriarcale nel sud Italia. I figli come si dice così sono sempre pezzi di cuore, difficilmente una mamma riconosce che un figlio abbia sbagliato, lo difenderà sempre. Per i ragazzi si fa tutto perché non c’è più l’educazione al limite, a un confine, Questo però accade ovunque, non solo in famiglie disagiate, basti pensare ai figli che uccidono i genitori come succede in tutta Italia. Questa mancanza di un limite educativo è un danno per la natura della persona che si permette di sconfinare. Quando questo limite non è posto succede di tutto, anche uccidere i genitori.
(Paolo Vites)