Per i poveri beni culturali italiani non c’è mai pace. La sentenza del Tar di ieri, che ha bloccato le nomine di cinque direttori di grandi musei frutto della famosa “infornata” del ministro Franceschini, ha qualcosa di surreale. Innanzitutto arriva a oltre un anno e mezzo dall’insediamento, quando ormai tutte le discussioni e le polemiche erano abbondantemente sopite; in secondo luogo per cavilli procedurali riguarda alcuni dei direttori ma non tutti; in terzo luogo lascia vacanti alcune istituzioni celebri in tutto il mondo. 



La storia nasce dal ricorso fatto da alcuni dei candidati esclusi dalle nomine, Giovanna Paolozzi Maiorca Sforza, ora sovrintendente a Parma, Francesco Sirano, attuale direttore del parco di Ercolano e Umberto Pappalardo. I giudici amministrativi in sintesi hanno annullato le nomine dei direttori dei musei archeologici di Napoli, Taranto, Reggio Calabria, delle Gallerie Estensi di Modena e del Palazzo Ducale di Mantova. La sentenza per quanto surreale nei suoi effetti ha purtroppo una sua inevitabilità: infatti nella legge speciale che istituiva la selezione, mentre erano stati eliminati tanti legacci della macchina ministeriale, ci si era dimenticati di una legge del 2001 che stabilisce che gli stranieri possano ambire a posti pubblici, a meno che questo non implichi “l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri”, “che attengono alla tutela dell’interesse nazionale”. Nel caso di queste nomine la tutela evidentemente entrava in gioco. A quanto è dato capire i giudici del Tar quindi non potevano decidere diversamente.



La vera domanda da farsi a questo punto è questa: com’è possibile che la macchina ministeriale abbia commesso una mancanza così macroscopica avendo per le mani un provvedimento di tale delicatezza e importanza? Rivista a posteriori la vicenda, si resta un po’ perplessi davanti alla vistosa differenza tra l’enfasi mediatica con cui le nomine erano state annunciate e la superficialità nei confronti delle regole. L’ansia di attribuire un valore epocale alla nuova strategia di nomine sembra evidentemente aver legittimato il ricorso a scorciatoie. L’altra parte della sentenza del Tar infatti mette in dubbio la validità delle procedure per le selezioni finali: le prove orali vennero tenute a porte chiuse o addirittura via skype per arrivare più in fretta possibile alle nomine.



Purtroppo le grandi istituzioni museali italiane sono obiettivi mediaticamente sensibili nel male e anche nel bene. Nel male, come si è visto ogni volta che qualche pietra si muove a Pompei e accende polveroni a livello mondiale. Nel bene quando un ministro concentra tutta la sua strategia politica su novità introdotte in quelle sedi celebri che danno visibilità a livello globale. Quando la preoccupazione mediatica è troppo prevalente alla fine è inevitabile che qualche pasticcio accada. I nuovi direttori voluti da Franceschini sono stati indubbiamente un fattore di novità. Il fatto di essere stranieri ha permesso loro una libertà di movimento nei confronti di situazioni incancrenite: ad esempio in molti casi sono riusciti finalmente mettere mano alla riorganizzazione del personale dei musei. 

C’è poi un altro vizio che ha condizionato questa operazione di rinnovamento: ed è la visione di un’Italia a due velocità, dove conta sistemare le cose nelle situazioni-vetrina (i grandi musei), senza curarsi di tutto il resto. A Parigi una volta sistemato il Louvre è stata sistemata la maggior parte del patrimonio cittadino. A Firenze una volta sistemati gli Uffizi, resta comunque aperto il problema della grande maggioranza dei tesori della città. Solo una visione coordinata e organica può portare a buone scelte per il meraviglioso patrimonio italiano. Purtroppo è una visione che mediaticamente non paga.